Benigno Zaccagnini, medico e partigiano, è stato costituente, a lungo deputato e senatore, tre volte ministro, presidente del Consiglio nazionale e infine segretario della Dc. Una carriera politica, la sua, che fino all’ultimo resta limpida e originale, persino austera, staccandosi dal modello della lenta marcia lungo i sentieri del potere. Infatti, fedele ai suoi principi, Zaccagnini il potere l’ha incrociato senza averne ritorni, davvero in spirito di servizio. Difficile ignorare perciò la bella testimonianza che egli ha trasmesso all’insieme del partito, al di là delle sue correnti.
Era nato a Forlì nel 1912 ed era cresciuto in quella terra di Romagna dove agli inizi del Novecento l’anticlericalismo di repubblicani e socialisti non si era scontrato con il vecchio clericalismo, ma con le forze giovani e intraprendenti della democrazia cristiana di Murri. Un altro faentino, Giuseppe Donati, morto a Parigi nel 1931 da fuoriuscito antifascista, fino all’ultimo aveva tenuta accesa la fiammella della libertà e della democrazia. Potremmo dire che il vissuto della “Romagna bianca” incise profondamente nella coscienza di Zaccagnini. Sarà il substrato della sua politica. Nel 1977, da segretario del partito avrà cura di inviare pubblicamente gli auguri per i suoi 80 anni a Domenico Ravaioli un altro faentino indomito, anche lui murriano in gioventù e vicino, sul letto di morte, all’amico Donati.
Zaccagnini, eletto in Parlamento, si avvicina a Giuseppe Dossetti. Quando questi comunica nel 1951 la decisione di ritirarsi dalla vita politica, ha una solo parola per descriverne le conseguenze: “baratro”. È questo il pericolo che vede, da cui saprà uscire con la frequentazione sempre più assidua di Moro, senza passare per l’esperienza della sinistra (o meglio delle sinistre) dc. Poi l’altro “baratro” dopo il rapimento e l’assassinio proprio di colui che considerava il punto di riferimento più alto sul piano politico e personale. Zaccagnini, carico di responsabilità, proverà a vincere lo sconforto, per recuperare e andare avanti. Lo farà esteriormente, per senso del dovere, ma non con la necessaria sicurezza interiore.
Come parlare di lui senza retorica e con precisione? Oggi si fa presto a ricordarne tanto la mitezza quanto la forza tipiche di un uomo volutamente distante dalla ribalta…fino a quando, però, le circostanze non glielo imposero. È stato il Giovanni XXIII della Democrazia Cristiana, il Papa laico del “rinnovamento democristiano” nelle istituzioni e nella società, l’interprete della politica del confronto – espressione del lessico moroteo – che doveva segnare il passaggio dal vecchio centro-sinistra alla stagione, breve e drammatica, della solidarietà nazionale. Aveva il carisma di chi non cerca il consenso, ma lo suscita con la sincerità della parola e dell’azione.
“La vita di Zaccagnini, ha scritto Corrado Belci, può essere tradotta con la sintetica e assai semplice espressione di Dietrich Bonheffer – che Benigno rileggeva proprio negli ultimi giorni – per definire in termini di coerenza una vita da cristiano: «esserci-per-altri». Gli “altri” sono stati gli uomini e le donne di tutte le comunità cui egli ha destinato le sue energie e il suo amore: la famiglia, la comunità di Ravenna, l’Azione Cattolica, la Fuci di Righetti e Montini, le cooperative, l’Ospizio di Santa Teresa e i suoi malati poveri, le formazioni partigiane, la Costituente, il Parlamento, la Democrazia cristiana, il Paese, i giovani, il Terza Mondo”. Ecco, non si poteva tratteggiare meglio, in poche frasi, l’esperienza privata e pubblica di Zaccagnini.
Giunto inaspettatamente alla guida del partito, ne interpretò l’istanza di cambiamento offrendo agli iscritti e ai simpatizzanti l’orgoglio compresso dalla lunga pratica di potere e infine mortificato, nel biennio ’73-’75, da eventi epocali come la vittoria del No al referendum sul divorzio. Doveva essere un segretario di transizione, invece a Piazza del Gesù vi rimase molto più a lungo del previsto, sempre con il desiderio di promuovere un’altro modello di fedeltà, se così si può dire, alla missione della Democrazia cristiana. Con la Segreteria Zaccagnini trovava accoglienza l’intuizione per la quale Moro aveva misurato la sua distanza dal corpaccione moderato del partito, prospettando l’idea di una Dc capace di essere anche “opposizione a se stessa”. Con questo spirito la novità zaccagniniana tramuta il moroteismo in capacità di movimento e forza di suggestione, restituendo anzitutto la dignità dell’essere democristiani in un tempo di feroce (e violenta) lotta al cosiddetto regime della Dc. […]
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