Biden alla testa di un partito diviso in un’America divisa

Tra le varie difficoltà che incontra il Presidente ce n’è una che pesa non poco: quella che muove dal conflitto interno ai Democratici tra i moderati e l’ala più radicale e oltranzista.

I sondaggi stanno premiando Trump nel confronto, ormai certo, con Joe Biden. Entrambi hanno qualche problema col proprio partito; quelli del primo sono però minori, sostanzialmente limitati ai repubblicani che hanno votato alle Primarie l’ex governatrice del Sud Carolina Nikki Haley. Anche se non si deve mai dimenticare che una minoranza può sempre risultare decisiva in un sistema dove si vince, stato per stato, anche per solo un voto in più. Per il Presidente, invece, i guai appaiono oggi più severi e non è un caso se, nella sua ultima mail ai propri sostenitori, egli abbia dichiarato con toni assai preoccupati quale sia la posta in gioco.

Continueremo ad andare avanti? O consentiremo a Donald Trump di trascinarci nel caos, nella divisione, nelloscurità che caratterizzò il suo mandato?”. E proseguendo: “Quando ho lanciato la mia campagna per la rielezione ho detto che credo che ogni generazione ha un momento nel quale deve alzarsi in piedi (ovvero combattere) per la democrazia. Per le libertà fondamentali. (…) Sappiamo chi è Donald Trump, sappiamo cosa fa. Sappiamo che vuole sacrificare la NOSTRA democrazia per salire lui al potere. Noi non possiamo lasciarlo portarci indietro”.

Il tono è drammatizzante. Col tempo lo diverrà ancor di più. Lo si è già visto nell’efficace Discorso sullo Stato dell’Unione, affrontato con determinazione e passione, nel quale ha attaccato duramente il suo sfidante senza mai nominarlo, chiamandolo sempre “il mio predecessore” e accusandolo d’essere un vero pericolo per la democrazia americana. Un intervento tutto giocato in attacco, meno presidenziale e più da candidato, perché Biden deve convincere a ricredersi molti elettori democratici che per varie ragioni lo stanno abbandonando, come si è visto nelle Primarie, dal Michigan al Minnesota, dal Nord Carolina al Colorado. Il fenomeno del quale si sta parlando in questi giorni è quello degli uncommitted, letteralmente i “non impegnati”, ovvero elettori democratici che non vogliono esprimere alcuna preferenza, facendo così il gioco di Trump. Essi appartengono, prevalentemente, a tre diverse categorie di protestatari.

In primo luogo le comunità arabe o in genere mussulmane, che non approvano il sostegno degli Stati Uniti a Israele, particolarmente ora con quello che sta accadendo a Gaza. Per lo stesso motivo, in secondo luogo, molti giovani, soprattutto gli universitari, desiderano punire il Presidente preferendo in tal modo – in perfetta modalità estremista radicale – il ritorno al potere di Trump, contro il quale potranno poi beatamente manifestare il proprio inutile ma mediatico dissenso. In terzo luogo ci sono le comunità di colore che si sono raccolte intorno al Black Lives Matter, l’ala più aggressiva del declinante Black Power rinvigorita da qualche anno in seguito al terribile omicidio di George Floyd a Minneapolis ad opera di un poliziotto bianco e razzista. Questa comunità ha pure un candidato indipendente alla presidenza, Cornel West, che non prenderà certo molti voti causa la radicalità eccessiva dei suoi proclami ma che comunque quelli che prenderà li sottrarrà a Biden e non certo a Trump.

Ma non è tutto. C’è anche un’area indefinita di persone di area democratica che ritiene Biden davvero troppo anziano e per questo ormai palesemente inadatto al ruolo. In questo naturalmente il passo incerto del Presidente e le sue amnesie sui nomi giocano il loro peso. Trump ha solo tre anni in meno ma a colpo d’occhio pare più in forma, e inoltre gli elettori repubblicani si pongono meno problemi, consapevoli che il loro obiettivo è chiaro e l’ex Presidente può conseguirlo.

E c’è anche il figlio di Bob Kennedy, per non farsi mancare nulla, nel campo democratico. Un no-vax, ambientalista estremo, pacifista filo-putiniano che corre da indipendente con la piena consapevolezza di poter risultare decisivo ai fini della sconfitta di Biden, che di fatto è il suo principale obiettivo. La famiglia più famosa d’America ha preso le distanze da queste posizioni e anche da lui ma quel cognome suscita ancora emozioni nel campo democratico e dunque il candidato potrà conquistare voti emotivi e non razionali, ma pur sempre voti sottratti a Biden. E non pochi, se i sondaggi che lo collocano fra il 10 e il 15% risultassero veritieri.

Da ultimo, ma non ultimo, tutt’altro, il radicalismo interno al Partito Democratico è un’altra delle spine presidenziali. Biden, storico leader dell’anima moderata, diciamo “centrista” del partito ha durante questi quattro anni concesso molto all’ala interna più marcatamente liberal. La quale, trainata da parlamentari giovani quali Alexandra Ocasio-Cortez (la più nota e più mediaticamente presente), ha spostato il proprio asse su posizioni oltranziste in tema di diritti civili e in generale di quella filosofia cosiddetta woke” che esaspera il precedente e consolidato politically correctallargandolo alla successiva cancel culture” sino a giungere ad una sostanziale rivisitazione di tutta la storia e la cultura americana e occidentale.

Dall’ambientalismo esasperato che contrasta interi settori produttivi e i loro lavoratori; all’assolutizzazione dei diritti LGBTQ+ che azzera ogni pensiero legittimamente più tradizionalista sui temi della famiglia; all’antirazzismo a tratti violento di Black Lives Matter che spesso penalizza le altre minoranze, a cominciare da quella ispanica; all’antiamericanismo degli universitari sostenitori di Hamas prima ancora che del popolo palestinese e violentemente anti-israeliani: tutta una serie di posizioni dogmatiche e intolleranti che alla lunga stanno irritando quella maggioranza di popolazione non certo razzista né contraria alle minoranze che però giudica esagerate le spesso arroganti affermazioni woke. Una larga parte di elettorato popolare che vota democratico ma che non condivide affatto queste posizioni estreme e che considera Biden – anche per via della sua senescenza – ormai troppo debole per opporvisi. Considerazioni queste che vengono certamente condivise e colte dalla nuova generazione di amministratori locali che probabilmente costruiranno il nuovo asse centrale del partito ma che non hanno ancora, oggi, la forza per proporre un nome alternativo a quello del Presidente uscente. Che è così il candidato di un partito assai diviso in un’America molto divisa.