La vicenda di via Fani e della uccisione di Aldo Moro, dopo 55 giorni di sequestro per mano brigatista, ci porta a riflettere sulle “zone buie” di un atto eversivo, equivalente per feroce determinazione a un vero e proprio colpo di Stato. Così lo definì Giovanni Galloni, vice segretario vicario della Dc all’epoca dei fatti. Senza dubbio un atto fuori dell’ordinario, capace di bloccare e stravolgere la dinamica democratica del Paese, con pesanti conseguenze. Continuare a riflettere sull’accaduto è un esercizio di consapevolezza civile, prima ancora che politica.
Viene da chiedersi, a distanza di molti anni, cosa avvenne lungo l’asse tra Washington e Roma, con varie diramazioni e interferenze. È caduto in oblio il fatto che poco prima dell’attentato su “La Stampa” (24 febbraio 1978) Furio Colombo riferiva di una posizione articolata – potremmo dire non estremista, certamente riflessiva rispetto alla complessità della questione – che sul “comunismo in Europa” aveva elaborato in quel frangente complicato sul piano internazionale la Sottocommissione per gli Affari Europei del Senato americano.
Il passaggio merita di essere strappato dalla zona d’ombra in cui è caduto in questo lungo tempo. In effetti, qualcosa ci sorprende e ci stimola, poiché la storia che prende forma con l’agguato di Via Fani non conosce (ancora) la parola fine. Chi era il vice-presidente della commissione, incaricato di presentare il Rapporto? Nella distrazione di questi anni ci siamo dimenticati che si trattava di un giovane senatore di nome Joe Biden, destinato a insediarsi un giorno alla Casa Bianca. In quel contesto, la sua rappresentazione del punto di vista americano non piega a cieco ostracismo verso l’esperimento in corso nei Palazzi del potere di Roma.
Si potrebbe arguire che a Washington non ci fosse un’unica versione circa la risposta da dare al possibile accesso del Pci all’area di governo. Con Biden, ovvero con il documento stilato dalla Commissione senatoriale, si apre ai nostri occhi uno squarcio sull’esistenza di un confronto in piena regola all’interno dell’establishment statunitense. Orbene, sarebbe interessante che l’Italia, nelle forme più appropriate e quindi con l’intelligenza di una corretta iniziativa politico diplomatica, si rivolgesse al Presidente degli Stati Uniti affinché possa trovare soddisfazione la perdurante domanda di verità che ristagna nella coscienza collettiva dell’Italia.
Si tratta insomma del dovere posto in capo alla politica a proposito dell’ineludibile esigenza di fare luce sul “caso Moro”, anche con un recupero di memoria e di analisi su questo dimenticato Rapporto del 1978. Abbiamo bisogno di un colpo d’ala per non arrenderci alla pigrizia delle cose lasciate a metà, in una sospensione di consapevolezza critica. Forse faremmo un passo in avanti nella comprensione degli anni di piombo e del sacrificio di Aldo Moro.
P.S. Questa nota rielabora un comunicato stampa ripreso nel tardo pomeriggio di ieri dall’Agenzia Italia (AGI). Si ringrazia, con l’occasione, Salvatore Turano per l’ausilio prestato nel lavoro di ricerca e documentazione.