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Coprifuoco e mascherina obbligatoria ad Anversa dinanzi all’impennata di contagi da coronavirus.

Le autorità belghe hanno ordinato il divieto di spostamenti – tranne che per attività essenziali – tra le 23.30 e le 6 del mattino, mentre la mascherina sarà obbligatoria in tutti i luoghi pubblici e laddove non possa essere mantenuto un distanziamento fisico di almeno 1.5 metri.

Vietati anche gli sport di contatto, mentre gli sport di squadra sono autorizzati solo per i minori di 18 anni. Obbligatorio, infine, il telelavoro, laddove sia possibile.

Secondo gli ultimi dati, nella settimana dal 18 al 24 luglio in Belgio è stata registrata una media di 311,4 casi al giorno, un aumento del 69% rispetto alla settimana precedente.

Alla ricerca della vocazione perduta

Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Roberto Cetera

C’è un buco nel sistema scolastico, che pur essendo macroscopico viene spesso sottaciuto nella sua gravità. Si tratta della capacità della scuola di saper contribuire alla formazione di un orientamento alle scelte universitarie e lavorative successive al percorso scolastico. Se la scuola è — o dovrebbe essere — soprattutto scuola alla vita, la mancanza di un supporto allo svelamento della propria vocazione, è evidentemente una mancanza grave.

In realtà in tutte le scuole superiori è prevista negli organigrammi una «funzione strumentale all’orientamento», ma quasi sempre si tratta di un ruolo burocratico il cui compito essenziale è di organizzare le presentazioni di marketing dei vari istituti accademici in concorrenza. Su ciò ulteriormente si innesta, occorre dirlo, un rigetto dei docenti al compito («non spetta a noi») e anche una diffusa impreparazione sull’argomento.

D’altronde, sempre più frequentemente la scelta della professione insegnante non è essa stessa tanto frutto di vocazione quanto di convenienza; e allora la domanda sorge provocatoria e spontanea: può efficacemente orientare chi è di per sé abbastanza disorientato?

Il problema è molto più serio di quanto possa a prima vista apparire; i risultati si vedono: un tasso di abbandono delle università tra i più alti in Europa, una percentuale di laureati sull’intera popolazione da fanalino di coda. E sopra ogni cosa il dilagare di una diffusa insoddisfazione esistenziale tra i giovani adulti. Non è un problema “tecnico”, ovviamente. Non si tratta semplicemente di comparare vantaggi e svantaggi di questa o quella facoltà e università.

Nel lavoro che ognuno di noi sceglie si rivela e concretizza l’identità dell’individuo. Ne abbiamo avuto conferma recentemente con le tante reazioni di disagio registrate in queste settimane alla pratica forzata dell’impersonale smart-working. Non avere il lavoro, o svolgerlo senza relazioni vis a vis, per molti ha significato smarrire d’identità. Nel lavoro, attraverso il fare si costituisce l’essere.

La ricerca di una vocazione non è un processo facile. Non è un processo che si svolge in solitudine, ma necessita di una buona capacità di relazione, e soprattutto di ascolto: gli altri ci “leggono” meglio di quanto supponiamo di saper fare da soli. La vocazione non è necessariamente quello che mi piace. Può grandemente piacermi l’arte, ma magari non so tenere un pennello in mano o suonare i timpani. La vocazione va poi depurata dalle influenze esterne, i desideri malcelati dei genitori, i “consigli” della fidanzata, le mode del momento (l’informatica negli anni Ottanta, le scienze delle comunicazioni nei Novanta, ecc.), la stretta relazione con le opportunità di lavoro («con giurisprudenza alla fine hai più sbocchi»). Tutti trabocchetti che rendono ancor più periglioso il percorso di un giovane che già vive in un mondo sempre più complicato e confuso.

Non di rado questo lavoro di supporto e consulenza cade sulle spalle del professore di religione. Se è uno bravo. Perché solo ai professori di religione è rimasta l’intenzione di orientare i giovani a una buona vita e non essere solo dei meri trasmettitori di competenze. Perché in fondo “vocazione” è proprio e semplicemente questo: vivere una vita buona, scoprendo e valorizzando i talenti che ciascuno può vantare. Perché proprio gli insegnanti di religione? Potremmo dire che in fondo è quello che la Chiesa essenzialmente fa da duemila anni: orientare la gente a una buona vita.

E non a caso proprio a un insegnante di religione di lungo corso è venuta l’idea di creare un cruscotto, un sistema pratico di riconoscimento della propria vocazione, da mettere a disposizione dei giovani, e degli educatori che li seguono.

Discernere da giovani (Sophia editrice, 2019, 15 euro) di Alessandro Di Medio è il primo di tre volumi con cui questo giovane prete, parroco e insegnante di Roma ha cercato di riassumere e sistematizzare il lavoro sull’orientamento che da anni svolge con un equipe collaudata di formatori e insegnanti sui suoi ragazzi.

Il metodo è sempre lo stesso, che nella Chiesa è prassi consolidata: quello del discernimento. Si tratta di indurre i giovani a usarlo alla ricerca di proposte di vita che non si limitino agli aspetti apparentemente remunerativi e in fondo grigi e banali, ma siano effettivamente tese alla ricerca di una felicità esistenziale. Questo primo dei tre libri proposti da don Alessandro tratta appunto degli ostacoli che si frappongono a un’autentica scelta vocazionale. Gli altri due sono già in preparazione e costituiranno il master plan di iniziative di formazione all’orientamento per gli educatori. «Abbiamo già presentato nei giorni scorsi — spiega Fazio Frosali che partecipa all’equipe guidata da don Alessandro — un percorso di formazione all’orientamento che speriamo possa divenire un vero e proprio corso accademico per gli studenti delle facoltà di Scienze Religiose, e non solo».

Dazi: scade l’ultimatum di Trump

Scade l’ultimatum del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per l’applicazione di nuovi dazi ad una lista di prodotti europei che per l’Italia riguarda un valore dell’export di 3 miliardi, e si estende tra l’altro a vino, olio e pasta Made in Italy oltre ai formaggi e salumi che sono stati già colpiti. E’ quanto afferma la Coldiretti in riferimento alla conclusione il 26 luglio della procedura di consultazione avviata dal Dipartimento del Commercio (Ustr) degli Usa sulla nuova lista allargata sui prodotti Ue da colpire a seguito della disputa sugli aiuti al settore aereonautico.

Nell’ambito del sostegno Ue ad Airbus gli Usa – sottolinea la Coldiretti – sono stati autorizzati dal Wto ad applicare sanzioni per un limite massimo di 7,5 miliardi di dollari all’Unione Europea che tuttavia lo scorso 24 luglio, a seguito dell’annuncio del consorzio Airbus della revisione degli aiuti di Stato ricevuti, che rende i sostegni “pienamente conformi alla sentenza dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha invitato gli Stati Uniti a rimuovere immediatamente tali dazi, che sarebbero ora ingiustificati.

Un contenzioso che per l’Italia riguarda i 2/3 delle spedizioni agroalimentari totali con gli Usa che – precisa la Coldiretti – minacciano di aumentare i dazi fino al 100% in valore e di estenderli a prodotti simbolo del Made in Italy, dopo l’entrata in vigore il 18 ottobre 2019 delle tariffe aggiuntive del 25% che hanno già colpito specialità italiane come Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Gorgonzola, Asiago, Fontina, Provolone ma anche salami, mortadelle, crostacei, molluschi agrumi, succhi e liquori come amari e limoncello.

L’export del Made in Italy agroalimentare in Usa nel 2019 è risultato pari a 4,7 miliardi ma – rileva la Coldiretti – con un aumento del 10% nel primo quadrimestre del 2020 nonostante l’emergenza coronavirus. Il vino con un valore delle esportazioni di oltre 1,5 miliardi di euro, è il prodotto agroalimentare italiano più venduto negli States mentre – precisa la Coldiretti – le esportazioni di olio di oliva sono state pari a 420 milioni ma a rischio è anche la pasta con 349 milioni di valore delle esportazioni.

Gli Stati Uniti – continua la Coldiretti – sono il principale consumatore mondiale di vino e l’Italia è il loro primo fornitore con gli americani che apprezzano tra l’altro il Prosecco, il Pinot grigio, il Lambrusco e il Chianti che a differenza dei vini francesi erano scampati alla prima black list scattata ad ottobre 2019. Se entrassero in vigore dazi del 100% ad valorem sul vino italiano una bottiglia di prosecco venduta in media oggi al dettaglio in Usa a 10 dollari ne verrebbe a costare 15, con una rilevante perdita di competitività rispetto alle produzioni non colpite.  Allo stesso modo si era salvato anche l’olio di oliva Made in Italy anche perché – riferisce la Coldiretti – la proposta dei dazi aveva sollevato le critiche della North American Olive Oil Association (NAOOA) che aveva avviato l’iniziativa “Non tassate la nostra salute”.

“Occorre impiegare tutte le energie diplomatiche per superare inutili conflitti che rischiano di compromettere la ripresa dell’economia mondiale duramente colpita dall’emergenza coronavirus” ha affermato il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel sottolineare l’importanza della difesa di un settore strategico per l’Ue che sta pagando un conto elevatissimo per dispute commerciali che nulla hanno a che vedere con il comparto agricolo.

“L’Unione Europea – ha aggiunto Prandini – ha appoggiato gli Stati Uniti per le sanzioni alla Russia che come ritorsione proprio all’inizio di agosto di sei anni fa ha posto l’embargo totale su molti prodotti agroalimentari, come i formaggi, che è costato al Made in Italy 1,2 miliardi ed è ora paradossale che l’Italia si ritrovi nel mirino proprio dello storico alleato, con pesanti ipoteche sul nostro export negli Usa. Al danno peraltro si aggiunge la beffa poiché il nostro Paese – ha concluso il presidente della Coldiretti – si ritrova ad essere punito dai dazi Usa nonostante la disputa tra Boeing e Airbus, causa scatenante della guerra commerciale, sia essenzialmente un progetto francotedesco al quale si sono aggiunti Spagna ed Gran Bretagna”. Dall’inizio dell’anno ad oggi lungo la Penisola si sono verificati 71 nubifragi con precipitazioni violente e bombe d’acqua, con un aumento del 31% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, a conferma dei cambiamenti climatici in atto che si manifestano con il moltiplicarsi degli eventi estremi. E’ quanto emerge da una elaborazione di Coldiretti su dati dell’European Severe Weather Database (ESWD) in riferimento all’eccezionale bomba d’acqua abbattutasi su Milano e all’ondata di maltempo che sta interessando la Lombardia, con danni anche nelle campagne.

PA, siglato protocollo per il rientro in sicurezza del pubblico impiego

Orari di lavoro e di apertura al pubblico più flessibili. Modalità di interlocuzione programmata con l’utenza, anche attraverso soluzioni digitali e non in presenza per evitare assembramenti. Misure di controllo per garantire il distanziamento interpersonale durante le attività. Sono alcuni dei punti chiave del protocollo quadro per la prevenzione e la sicurezza dei dipendenti pubblici sui luoghi di lavoro rispetto all’emergenza Covid, adottato presso il Dipartimento della funzione pubblica. Al tavolo virtuale per la sigla del documento erano presenti il ministro per la Pa, Fabiana Dadone, e i sindacali Cgil, Cisl, Uil, Cgs, Cida, Cisal, Confsal, Cse, Codirp, Confedir, Cosmed, Usb, Unadis, Ugl e Usae.

Il documento, vidimato dal Comitato Tecnico-Scientifico del Ministero della Salute, dà precisi indirizzi alle amministrazioni in ordine alla necessità di tutelare il personale, gli utenti e tutte le altre figure che interagiscono con i pubblici uffici, contemperando le imprescindibili esigenze sanitarie con la necessità di una sempre più intensa ripresa dell’erogazione in presenza dei servizi che non possono essere resi da remoto, come previsto dal decreto Rilancio. Un passaggio reso ancor più necessario dalla prossima scadenza di metà settembre che vedrà venir meno il principio che distingue le attività cosiddette indifferibili dalle altre.

Il protocollo contempla poi la necessità di prestare particolare attenzione alla gestione dei casi di sospetta sintomatologia da Covid-19, di assicurare la dotazione di termoscanner agli ingressi, dei dispositivi di protezione individuale ed eventualmente di barriere separatorie laddove non sia possibile garantire le distanze. Non manca l’eventuale ricorso alle visiere per il personale a contatto con il pubblico e le prescrizioni su igiene quotidiana, aerazione regolare e sanificazione frequente degli ambienti di lavoro. Oltre all’indicazione per le amministrazioni di mettere in campo le opportune azioni di informazione e formazione sulle procedure dettate dal protocollo.

In allegato la Circolare n. 3 del 24 luglio 2020 del Ministro per la Pubblica amministrazione, recante indicazioni per il rientro in sicurezza sui luoghi di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni (In attesa di registrazione da parte della Corte dei conti) e il Protocollo quadro “Rientro in sicurezza” Ministro per la Pubblica Amministrazione – Organizzazioni sindacali.

Una coalizione di leader globali per un nuovo paradigma economico, sociale e ambientale

Nasce l’ alleanza globale green, Regeneration 20|30. Guidata da un gruppo di imprenditori italiani illuminati – Davide Bollati (Davines), Maria Paola Chiesi (Chiesi Farmaceutici) e Andrea Illy (illycaffé), ai quali si è recentemente unito Oscar di Montigny (Banca Mediolanum e Flowe) – insieme con i co-fondatori del sistema B Corp (rappresentato da Nativa e Fondazione Progressio) e della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile, Regeneration 20|30 rappresenta oggi un’alleanza unica di imprese, istituzioni, mondo accademico, organizzazioni non-profit, leader spirituali e individui, uniti in un impegno collaborativo. La coalizione conta su partner istituzionali della prima ora, quali il Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite, presieduto da Jeffrey D. Sachs; il Centre for Bhutan Studies; l’Accademia Pontificia delle Scienze Sociali; ASVIS; e sulla collaborazione con il Parlamento Europeo.

L’obiettivo dell’alleanza è quello di avviare un dialogo multilaterale, in cui tutte le parti si impegnino concretamente per cambiare il paradigma economico e sociale estrattivo, attuale e passato, a favore di un paradigma nuovo, capace di rigenerare persone, economia e ambiente. Il punto di partenza è un documento d’impegno (pledge ) che tocca i tre pilastri fondamentali del progetto – Economia Rigenerativa, Lotta al Cambiamento Climatico, Felicità  Mondiale – da cui costruire collaborativamente una piano d’azione e un toolkit che consenta a tutti gli stakeholder coinvolti (dal settore privato, alla pubblica amministrazione, alla società civile) di misurare e implementare nel tempo le proprie performance e progressi nelle tre aree, per poter sviluppare ed evolvere questo nuovo paradigma giorno dopo giorno.

La capacità di unire e far convergere questi diversi ‘attori’ globali in un dialogo aperto e inclusivo, con l’impegno e la prospettiva di un piano d’azione chiaro e concreto, è ciò che rende Regeneration 20|30 unica nel panorama delle molte iniziative attuali in ambito di sostenibilità, che in ogni caso la coalizione sarà ben lieta di accogliere nel dialogo stesso, per renderlo ancora più rilevante.

La frontiera temporale 20|30 è imprescindibile: non abbiamo più di 10 anni per invertire la rotta in termini di emergenza climatica – oggi la madre di tutte le cause – lavorando al tempo stesso a un nuovo modello rigenerativo che metta al centro felicità e benessere individuali e collettivi ed eguaglianza sociale, senza per forza rinunciare alla crescita economica.

Si tratta di una sfida epocale, che può essere affrontata solo grazie alla collaborazione di un gruppo di leader globali, che condividono valori, best practice e idee, stabilendo insieme la strada da seguire. Questo è l’obiettivo fondamentale per il ‘primo atto’ di Regeneration 20|30: un evento ‘ibrido’ (in parte digitale, in parte fisico) che si terrà a Parma, Capitale Italiana della Cultura 2020-21, il 15 e 16 ottobre prossimi.

A seguito della pandemia e dei più recenti dissesti sociali a livello internazionale, i fondatori di Regeneration 20|30 si sono chiesti se fosse il caso di mantenere questo appuntamento autunnale: la risposta è stata positiva, perché oggi più che mai l’urgenza di affrontare questi temi risulta impellente, così come la necessità di includere nella conversazione quello che abbiamo imparato dalla crisi inaspettata che ci ha colpiti tutti.

Troverete maggiori informazioni e dettagli qui: www.regeneration2030.eco.

Covid: l’Aifa sospende uso off-label per diverse sostanze

Assorted pills

Oltre alla conferma della sospensione per clorochina e idrossoclorochina al di fuori degli studi clinici contro il Covid l’Aifa ha deciso di mettere uno stop anche lopinavir/ritonavir e darunavir/cobicistat.

L’Agenzia del farmaco ha infatti aggiornato le schede sull’utilizzo dei medicinali in cui vengono riportate le prove di efficacia e sicurezza disponibili al momento e chiarisce le motivazioni alla base della decisione di sospendere l’autorizzazione all’utilizzo dei tre farmaci per il trattamento del COVID-19, al di fuori degli studi clinici.

Giuseppe Sabella: “Ecco il Green New Deal di Europa e Italia”

Direttore, prima di addentrarci nell’intervista, penso sia doveroso rivolgere un pensiero affettuoso al Prof. Giulio Giorello che ci ha lasciati recentemente e di cui Lei è stato allievo, collaboratore e coautore di importanti pubblicazioni. Oltre l’aspetto affettivo – il Prof. Giorello era una persona “che si faceva voler bene” – cosa ci resta delle intuizioni e della profondità del Suo pensiero? Vorrei che fosse Lei a ricordarcelo, vista la Vostra intensa e proficua frequentazione.

Giulio, come Lei dice, era un uomo amabile, sia per il suo carattere affabile e generoso, sia per le sue intuizioni. Il tempo trascorso con lui era speciale, era un tempo pieno, ricco. Anche all’età di 75 anni, la sua mente libera e creativa continuava a generare idee affilate e cariche di ironia. Era così anche quando ero studente, parliamo di 25 anni fa. Le sue lezioni erano molto frequentate perché oltre a essere molto interessanti lui si faceva amare. Per quanto riguarda il profilo scientifico, Giorello è stato allievo di Ludovico Geymonat e filosofo che non solo si è dedicato agli studi epistemologici, a Karl Popper in particolare e a chi ne ha discusso le posizioni, ma che – proprio come Popper – ha creduto che il metodo scientifico fatto di congetture e confutazioni potesse essere anche il giusto metodo per la costruzione della democrazia liberale. Non a caso, nel nostro “Società aperta e lavoro” c’è un capitolo che si intitola “dalla fabbrica dei cieli alla società aperta”. Giorello aveva questa sana tensione alla vita civile. In poche parole, Giorello è stato un intellettuale, figura che manca così tanto ai nostri giorni.

Ci racconta un episodio che ritiene significativo e che, magari, riguarda anche Lei?

Proprio nel periodo della tesi che mi fece fare su Geymonat, successe un giorno che in modo molto efficace e garbato – come del resto era lui – volle darmi una tiratina d’orecchie dopo aver letto il primo capitolo che avevo scritto. Avendo intuito la mia passione per la metafisica (kantiana ed hegeliana in particolare), mi disse così: Sabella, sa cosa dice Aristotele nell’Etica? Pensi pure Platone al bene in sé, noi vogliamo il bene di questi cittadini qui. Io gli feci quella che secondo me resta un’obiezione valida: Professore, come si fa a volere il bene di questi cittadini qui se non si ha un’idea di bene? Tuttavia, la sua provocazione mi è rimasta dentro a lungo perché, nonostante la mia tesi in filosofia della scienza, continuavo ad amare Kant e Hegel in particolare. E non posso dire oggi di non amarli più, sono stati letteralmente due eroi per me negli anni del corso di laurea. Ho compreso nel tempo che la sua domanda aveva un senso di verità molto profondo e che sintetizzava bene il suo pensiero: o le idee sono in grado di agire e di modificare la realtà o non sono nulla, sono astrazioni. E, contro queste astrazioni, lui ha condotto fino all’ultimo la sua battaglia. Sono convinto, oggi, che se possiamo parlare di verità, la verità è dentro questa tensione che c’è tra Platone e Aristotele, come tra Hegel e Marx, e che è una tensione al vero. E al bello.

È appena uscito il Suo ultimo libro edito da Rubbettino, “RIPARTENZA VERDE – industria e globalizzazione ai tempi del COVID”. Leggendolo si ha l’impressione di un saggio che segna una svolta nei Suoi interessi culturali: dall’industria e il lavoro all’economia, intesa in senso lato, con una valenza quasi esplicativa, ermeneutica e riassuntiva di quello che sta accadendo nel mondo dopo lo shock della pandemia. Intuizione che emerge già leggendo la sinossi del quarto di copertina. Si coglie una prevalenza fattuale della geoeconomia sulla geopolitica come modello esplicativo della realtà. È un’impressione adeguata al senso da Lei proposto nel Suo lavoro?

È trascorso più di un trentennio in cui la politica si è preoccupata essenzialmente di rompere le barriere che ostacolavano la circolazione di capitali e beni nel mondo – cosa che non è una male di per sé, anzi… – senza rendersi conto che questo movimento aveva una direzione univoca verso il Sol Levante tanto da rendere la Cina un colosso e da consegnarci una situazione di impoverimento generalizzato dell’Occidente. Questo perché si è creduto che la ricchezza potesse essere il prodotto dei mercati e degli scambi. Ma nel favorire mercati e scambi, abbiamo permesso agli investitori di andare a cercar fortuna quasi esclusivamente nei paesi a basso costo del lavoro, così da causare un processo di deindustrializzazione che non ha precedenti. La produzione di manifatturiero e la sua quota di PIL corrispondente sono state in costante calo in Occidente; il baricentro industriale si è gradualmente spostato verso quelle economie in grado di offrire rapida crescita a bassi salari: non solo Cina, Asia più in generale, India ed Europa dell’est. Già negli anni ‘80 in Occidente il numero degli occupati nel comparto dell’industria calava dal 35% al 30%; negli anni ‘90 ancora giù al 24%. Oggi la Cina è il più grande paese manifatturiero del mondo (quasi un terzo sulla produzione manifatturiera mondiale), in forte miglioramento rispetto al 8,3% registrato nel 2000, davanti agli USA e ai grandi Paesi Europei (Germania, Italia e Francia). Tutto ciò, a Ovest, ha voluto dire crollo degli investimenti, indebolimento del lavoro e del potere d’acquisto, consumo sostenuto dal debito e bolla finanziaria che a un certo punto scoppia. E, negli anni della crisi, le economie occidentali hanno perso 13 milioni di posti di lavoro. Nel ventennio della prima globalizzazione sono stati circa 20 milioni i posti cancellati nel comparto industriale, quasi 1 addetto su 5. Oggi l’industria in Europa occupa il 15% dei lavoratori, in Italia il 17%. Da qualche anno, tuttavia, questa tendenza si è interrotta e – da questo punto di vista – la pandemia è un acceleratore del cambiamento.

Già dalle prime pagine emerge in modo deciso e argomentato come Lei intenda cogliere in estrema sintesi i fattori prodromici al contesto attuale. In primis la prevalenza della scienza e della tecnica rispetto alle ideologie, direi dalla rivoluzione industriale in qua, e non si tratta di un elemento incidentale. Poi negli ultimi due decenni del secolo scorso le macchine elettroniche e la globalizzazione, come fattori hanno inciso radicalmente segnando un’evoluzione decisiva della deriva tecnologica verso lo scenario attuale, quello del digitale, dell’industria 4.0, delle supply chain e della superpotenza cinese. Il COVID-19 ha giocato il ruolo dell’imprevedibile sconquasso. In che misura peserà sul dopo? In che senso Lei afferma che ciò che è locale è anche drammaticamente globale? E in quale direzione occorre progettare una ripartenza di tutto ciò che la pandemia ha drammaticamente bloccato?

La pandemia, come dicevo prima, è indubbiamente un avvenimento traumatico al pari dell’11 settembre e della crisi del 2008, eventi che ci hanno mostrato quello che con una felice espressione Giulio Tremonti chiama il “dark side” della globalizzazione. E il mondo è così tanto interconnesso al giorno d’oggi che, appunto, ciò che è locale è allo stesso tempo globale: ovvero, ciò che succede negli USA (pensiamo al crollo di Lehman Brothers) o in Cina (pensiamo al covid), finisce inevitabilmente – proprio per la forte interdipendenza che vi è tra le aree geografiche del mondo – per riguardare tutti. Va però detto che il cambiamento a cui stiamo andando incontro era già piuttosto delineato da quasi 3 anni. E mi riferisco, in particolare, al rallentamento della produzione industriale e del commercio mondiale (che nei mesi di marzo e aprile 2020 crolla di quasi il 20% ma, appunto, dopo anni di progressiva contrazione). Soprattutto quest’ultimo fattore ha generato una crescente regionalizzazione dell’economia, tanto che qualcuno si spinge a dire che la globalizzazione è finita. Trump è uno di questi, del resto per molti americani vale ciò che diceva Kissinger: “la globalizzazione è un altro nome con il quale si esercita il ruolo dominante degli Stati Uniti”. Trump è proprio colui che pone fine a questo ruolo dominante nel mondo, sin dall’inizio è stato di parola (si pensi al suo manifesto politico “America first”). Chiaro che questa posizione isolazionista degli USA ha avuto conseguenze importanti sullo scacchiere mondiale: la creazione di tre blocchi sempre più distinti – USA, Europa, Cina – e una forte propensione al protezionismo economico, tanto che addirittura l’Europa sta annunciando l’istituzione di dazi doganali. Ad ogni modo, la crescita mondiale non poteva proseguire a lungo per più ragioni, pensiamo in particolare all’irripetibilità del processo di off shoring (le delocalizzazioni produttive), al fisiologico rallentamento della crescita cinese e al back reshoring delle produzioni (ovvero il loro rientro), per altro avviato già negli anni della Presidenza Obama e nel quale anche il nostro Paese si è distinto.

Non sappiamo quale mondo uscirà dalla pandemia: perché allora si può affermare – come Lei fa – che la Cina è indiscutibilmente il grande vincitore della globalizzazione, in parte per propri meriti, in parte per errori altrui? Il Prof Caracciolo direttore di Limes ritiene che ad es. l’Italia non parteciperebbe mai ad una azione risarcitoria verso la Cina (da dove si è diffuso il contagio), proprio a motivo della nostra svolta filocinese, che risale almeno al Memorandum del 2019. Il tema del risarcimento è un tasto sul quale insiste invece Trump e parte del mondo occidentale. La Presidenza Trump, la diffusione pandemica drammatica negli USA, per sottostima del portato reale e delle raccomandazioni della scienza, l’uscita recentissima degli USA dall’OMS ma ancor prima la frantumazione dell’Europa, il declino della NATO, la forte espansione della Cina a 360° sui mercati mondiali: possono essere queste le concause che spiegano il fenomeno?

Quando affermo “la Cina è il vincitore della globalizzazione” mi riferisco unicamente alla fase pre-pandemica. Mi pare del resto evidente: come dicevo prima, negli ultimi 30 anni il mondo occidentale aveva previsto di rilanciare la propria produzione di ricchezza delocalizzando le attività manifatturiere. Ma ciò non è andato secondo aspettative. Anzi, è successo che, in 20 anni, la Cina è cresciuta moltissimo non solo in capacità produttiva ma anche in tecnologia, tanto da essere oggi la più importante manifattura a livello mondiale e il Paese più avanti nella frontiera digitale; ed è l’economia che il mondo e gli USA, l’altra superpotenza, stanno inseguendo. Secondo le nostre previsioni, il processo di off shoring avrebbe dovuto fare la nostra fortuna: in questo modo, producendo a basso costo, avevamo previsto di rafforzare il nostro potere d’acquisto. Non avevamo invece fatto i conti con i cinesi e con la Cina che, invece, abbiamo fatto grande noi, perché lì abbiamo destinato la nostra manifattura, la nostra tecnologia, le nostre competenze, le nostre invenzioni, etc. Tutto questo ha arricchito chi ha investito nei Paesi a basso costo di produzione ma ha impoverito l’Occidente. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: oggi la Cina è il vero vincitore della globalizzazione, sebbene il ciclo che viene sia pieno di variabili. Anche io penso che l’Europa terrà un atteggiamento piuttosto neutro nei confronti della Cina – del resto la Germania è il primo partner commerciale di Pechino – ma USA, Francia e Gran Bretagna sono per la linea dura. E, al di là di questo, in Cina ci sono tutte le premesse per una crisi interna, non solo politica ma anche legata ad altri fattori, finanziari e demografici soprattutto.

La contingenza del momento esprime un mix micidiale di alcuni fattori concomitanti: la sovrappopolazione umana sul pianeta, le stime dell’ONU sull’estinzione della biodiversità, la paralisi del mondo del lavoro e della produttività, la crescente povertà che ingloba la maggior parte degli esseri umani sul pianeta, l’incertezza e in larga misura l’incompetenza della politica (che si rivolge ai tecnici e agli scienziati – dunque alla tecnica e alla scienza perché non ha spiegazioni e proposte sue), l’assenza di un controllo demografico con problematiche speculari nei paesi ricchi e in quelli indigenti. Per far ripartire il motore della società civile, dalla scuola alla sanità, all’welfare, all’impresa e di farlo in modo diverso dal passato: può essere la digitalizzazione da un lato e l’onda verde montante nella consapevolezza dell’immaginario collettivo dall’altro rispetto ad un possibile “big crash” devastante, la svolta attesa dal mondo per cambiare registro in modo radicale? Mi pare di capire dal titolo del Suo libro quanta importanza Lei attribuisca alla necessità di far sintesi tra crescita/sviluppo da un lato e tutela ambientale dall’altro. Come entra in questo processo tendenziale, in modo risolutivo, la svolta della digitalizzazione?

L’emergenza climatica è non solo uno dei fattori che contraddistingue la nostra epoca ma è anche ciò che l’industria in particolare si è caricata sulle spalle ormai da anni. Come infatti sostengo nel libro, l’industria è il principale responsabile della crisi ambientale ma è, allo stesso tempo, il principale attore che può ripristinare un equilibrio nel pianeta. Perché possiamo ragionevolmente dire questo? Perché se andiamo a vedere concretamente come stanno le cose, ci rendiamo conto che è proprio il processo di digitalizzazione che comporta una crescente e progressiva dematerializzazione dell’economia. Si intende dire, con questa espressione, che la digitalizzazione sta rendendo l’industria sempre più indipendente dalle materie prime. Come dice Andrew McAfee, capo ricercatore al MIT di Harvard, il progresso tecnologico ha cambiato pelle: computer, internet e tecnologie digitali ci stanno permettendo di dematerializzare produzioni e prodotti consentendoci di consumare sempre di più attingendo sempre di meno. Dematerializzare significa appunto conseguire una riduzione dell’uso di materie prime nell’economia, aumentando la produttività delle risorse naturali per unità di valore. E il digitale è il nuovo motore che rompe col paradigma dell’era industriale della macchina a vapore e dei suoi discendenti capaci di attingere dai combustibili fossili. Come siamo riusciti a ottenere di più con meno? Facciamo qualche esempio: nel 1959 la lattina della Coca Cola pesava 85 gr di alluminio, oggi pesa circa 10 gr; se consideriamo le automobili, i motori a combustione sono mediamente più piccoli del 40% rispetto agli anni ‘80; oggi in uno smartphone vi è il telefono, la calcolatrice, la macchina fotografica, la fotocamera, la radiosveglia, il registratore, il navigatore satellitare, la bussola, il barometro, etc. Tutto questo significa meno metallo, plastica, vetro, silicio rispetto ai dispositivi che sono stati rimpiazzati. Come si vede, le nuove tecnologie e in particolare il digitale, ci stanno rendendo sempre più indipendenti da Madre Terra.

L’attacco al World Trade Center del 2001, il crollo di Lehman Brothers e la crisi dei subprime del 2008, la pandemia Covid-19 è, appunto, il terzo terribile colpo inferto agli assetti che assicuravano una stabilità e un equilibrio sostenibili tra ordine economico mondiale e alleanze politiche. I rapporti reciproci tra Cina, Usa e Russia sono radicalmente mutati. In particolare, si ha l’impressione che l’Europa possa essere indebolita dall’abbandono americano, dalle mire commerciali espansionistiche della Cina e dall’indebolimento della Russia come competitor delle due maggiori potenze. Senza contare le incognite India, Turchia e l’Africa come contenitore di problemi pronti a deflagrare. Quale sarà il destino dell’Europa? Dopo la Brexit sarà sempre più una realtà germano-centrica? In questo quadro in divenire non pensa che la Germania abbia interesse a rafforzare l’U.E. per evitare un autoisolamento? E quale margine di manovra potrà avere il nostro Paese con i dati economici attuali che lo rendono totalmente U.E.–dipendente?

Circa il destino dell’Europa, e quindi dell’Italia, inizierei col ricordare le parole di Angela Merkel del 19 maggio scorso, quando insieme a Emmanuel Macron presentava l’importantissima proposta di Recovery Fund poi approvata dal Consiglio Europeo: lo Stato nazionale non ha futuro, la Germania starà bene solo se l’Europa starà bene. Cosa significano queste parole? I tedeschi, dopo anni di sostegno alle politiche di bilancio, si sono improvvisamente consegnati allo spirito della solidarietà? Da una parte è così, soprattutto Angela Merkel ha capito che o l’Europa fa un passo in questa direzione o rischia l’implosione. Dall’altra, l’aspetto fondamentale di questo cambiamento è che nel cuore produttivo dell’Europa, in Germania appunto, ci si è finalmente resi conto del ritardo che sconta l’industria europea. Due elementi ci danno il quadro della situazione: in primis, solo pochi mesi fa l’Economist scriveva che nel 2010 vi erano 10 società europee tra le prime 40 quotate a livello mondiale, oggi ve ne sono 2 (32mo e 36mo posto); in secondo luogo, il McKinsey Global Institute ci dice che l’85% degli investimenti in intelligenza artificiale è stato realizzato in aziende americane e cinesi. Credo che questi due elementi insieme ci diano il quadro della situazione in cui si trovi l’industria e l’economia europea, il cui rallentamento negli ultimi 3 anni è stato clamoroso. Da questo punto di vista, la pandemia ha un effetto benefico sull’Europa: ci sta costringendo a ripensare la nostra architettura sociale e, quel che fa sperare, è che il Recovery Plan parte proprio dalle fondamenta: l’industria, che significa lavoro. E se pensiamo, ad esempio, all’articolo 1 della nostra Costituzione – l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro – forse possiamo dire che per la prima volta l’Europa sta avviando un vero processo di integrazione politica.

Ho trovato particolarmente interessante il paragrafo dedicato alle prospettive del cd. back reshoring. Quanto vale in termini di crescita una inversione di tendenza del fenomeno della delocalizzazione, con conseguente rientro dell’industria manifatturiera di cui l’Italia è uno dei più importanti detentori al mondo, rispetto alle future politiche di investimento e agli asset strategici da privilegiare per evitare al ns. Paese (ma anche all’Europa) di rimanere avvinghiati dalla politica commerciale espansiva della Cina, quindi in una situazione di sudditanza anziché di diventarne possibili competitor?

Il back reshoring è un processo che è stato avviato dagli USA e che è stato seguito dai principali paesi manifatturieri del mondo: la Germania, l’Italia, la Gran Bretagna, la Francia, il Giappone… non poteva non arrivare il momento in cui le imprese che così tanto avevano investito altrove, cominciassero a fare i conti con ecosistemi diversi – ambienti, culture, amministrazioni, persone, infrastrutture, mobilità, etc. – avendo evidenza una volta per tutte, superati gli entusiasmi iniziali, quale fosse l’impatto complessivo della delocalizzazione sui fattori della produzione. In sintesi: queste imprese hanno incominciato ad avvertire l’importanza di ecosistemi maturi. Per quanto riguarda le nostre imprese, al di là del fatto che il costo dei trasporti come quello del lavoro sono via via cresciuti, le ragioni sono più profonde: in primis, ha prevalso la volontà di poter tornare a usufruire del marchio made in Italy che differenzia la produzione italiana dal resto del mondo; in secondo luogo, gli ecosistemi sono diversi e diverse sono le garanzie che offrono, a cominciare sulla tutela dei brevetti e della proprietà intellettuale; inoltre, le competenze delle persone, le loro conoscenze, la loro storia, la loro capacità di adattamento alle organizzazioni, la loro flessibilità… sono caratteristiche molto note a quegli investitori che, in particolare, scelgono il nostro Paese. È difficile stimare quanto valore si sia spostato col back reshoring, certamente i Paesi che hanno visto rientrare le loro produzioni ne hanno avuto benefici importanti soprattutto perché si tratta prevalentemente di grandi imprese, con particolare incidenza sui livelli occupazionali. Se, tuttavia, ciò ci dà indicazione del fatto che qualche equilibrio si sta ripristinando, non possiamo dimenticare che la Cina oggi resta il Paese più digitalizzato al mondo. Quindi, Europa e Italia si devono dare una mossa. E non è un caso che, proprio in questi giorni, l’Europa abbia lanciato la piattaforma di cloud computing Gaia-X, proprio per iniziare a colmare il ritardo che ha sul digitale con Cina e USA; è il progetto di una nuova infrastruttura europea per la gestione dei dati che sappiamo essere decisiva nell’era digitale.

L’Europa è di fronte ad un bivio cruciale per i suoi destini: o ritrova lo spirito unitario dei padri fondatori e le intese non solo in tema di politica monetaria ma anche su quella fiscale/tributaria, del mercato del lavoro, della concertazione sulle scelte in tema di sistemi formativi, salute, giustizia, sdoganamento della burocrazia ecc. oppure rischia la frantumazione con micro alleanze interne, ciò che la porterebbe ad essere un debole competitor sui mercati e un boccone ghiotto per le politiche espansive commerciali delle super potenze. In che modo la “Ripartenza verde” può originare proprio dal vecchio continente. Ci sono ragioni culturali e di civiltà o anche motivi di strategia economica che possano valorizzare le nostre potenzialità? La stessa cosa chiedo per il nostro Paese.

È come Lei dice. Non sottovaluterei però l’accordo sul Recovery Fund: mi pare che sia decisivo, come dicevo prima per l’integrazione politica europea. Credo che questa sia un percorso molto complesso, siamo 27 stati membri ma se pensiamo bene a questa coabitazione direi che già di suo l’Unione Europea è un grande esperimento politico e sociale: vi è in particolare un’area mediterranea in cui la spesa pubblica ha storicamente avuto un ruolo preponderante e vi è un’area nord e mitteleuropea, invece, in cui questo ruolo lo hanno avuto le politiche di bilancio; senza considerare l’area balcanica di più recente annessione. Vi sono storie e culture molto differenti, questa coesistenza politica e di pace credo sia di per sé qualcosa di miracoloso. Certo non ha nessun senso un’entità sovranazionale che non genera benefici – come si è avvertito in qualche circostanza post 2011 (quando la crisi economica si è fatta drammaticamente sentire nell’area auro) – ma resto dell’idea che quanto sta avvenendo ora sta imprimendo un cambio di passo all’Unione. Venendo alla ripartenza verde, il Recovery Fund contiene un capitolo importante che va nella direzione dell’innovazione e della transizione ecologica ed energetica. Sono convinto che nessuno spingerà sulle politiche per il cambiamento climatico come l’Europa, tanto che l’Unione Europea potrebbe avviare nel mondo nuove forme di multilateralismo, proprio sul clima e, per esempio, sulla cyber security. Per quanto riguarda il nostro Paese, credo che il nostro destino sia indissolubilmente legato a quello europeo, in particolare a quello tedesco. Le ragioni sono prima di tutto economiche e industriali, ma le stesse carenze della nostra debole classe dirigente saranno compensate a livello più alto, europeo appunto.

Mi ha colpito questo passaggio leggendo il Suo libro: “Oggi l’Europa è leader mondiale nella definizione di politiche globali, ma è fortemente dipendente da un punto di vista tecnologico e ambientale in molti ambiti. Si pensi, in particolare, all’equipment sulle energie rinnovabili”. Come si sta muovendo la nuova Dirigenza U.E. in questo settore, visto che la green economy deve puntare su una forte innovazione progettuale per ridurre l’impatto sull’ambiente dettato dagli odierni stili di vita? Siamo davvero all’inizio del Green New Deal?

Ecco, prima della pandemia l’Unione Europea già stava lavorando moltissimo sul Green New Deal e sulla definizione di un piano industriale europeo per recuperare il ritardo che abbiamo in particolare con USA e Cina. Non se ne sono accorti in molti, ma più o meno due settimane fa, Christine Lagarde in un’intervista al Financial Times si è detta “pronta a esplorare ogni strada per sostenere il rilancio dell’industria europea anche nell’ottica di fronteggiare il cambiamento climatico”. In precedenza, già la Presidente Von Der Leyen aveva manifestato tutta la sua determinazione per il Green New Deal – “per l’Europa è come l’uomo sulla luna” – che solo l’emergenza sanitaria ha reso meno in primo piano nei lavori della Commissione. È quindi un ottimo segnale che anche un’istituzione come la BCE trasmetta tutta la sua convinzione in tal senso. Lo potremmo definire, dopo quello di Mario Draghi, il “whatever it takes” di Christine Lagarde. In buona sostanza, l’Europa col Green New Deal sta rendendo centrale la questione industriale e della sua innovazione. Credo che l’elettrificazione della mobilità diventerà la sfida simbolica per l’Unione Europea, pensiamo a due importanti player come Volkswagen e PSA-FCA: c’è il cuore della manifattura europea, tedesca, italiana e francese. Certo, l’Europa – come da sua domanda – è avanti sul piano regolatorio ma indietro su quello reale. Sulle rinnovabili e sugli obiettivi di carbon neutrality, per esempio, sono molto avanti gli stati del nord Europa e meno gli altri, sono indietro i Paesi dell’est, in particolare la Polonia; l’Italia è nelle medie europee e in particolare sull’economia circolare sta dimostrando molta capacità e dinamicità. Purtroppo, però, in questo quadro in cui l’UE da segnali importanti non solo per la sua industria ma anche per la sua integrazione, il nostro Paese pare reagire in modo molto parziale alla situazione. Non bastano le misure assistenziali, è fondamentale pensare anche alla ripresa, le aziende hanno bisogno di strumenti per progettare il futuro. Da questo punto di vista, il decreto rilancio è una delusione. Vi sono sì i bonus per edilizia e auto ma non vi è praticamente nulla per l’innovazione d’impresa. Deve ripartire il piano industria 4.0 in modo poderoso. Imprese e industrie vanno sempre più portate sull’orizzonte digitale e sulla transizione ecologico-energetica. Per l’Italia, secondo Paese manifatturiero d’Europa, è occasione fondamentale che non possiamo mancare: nel giro di tre anni, rischiamo di uscire dal gruppo dei Paesi avanzati.

A proposito di BCE, in occasione del conferimento della laurea honoris causa presso la Cattolica di Milano il Presidente uscente Mario Draghi ha indicato alcuni requisiti che un decisore politico ed economico dovrebbe possedere: la conoscenza, il coraggio e l’umiltà. Ciò chiama in causa competenze oggettive ma anche doti e disponibilità soggettive: quanto manca la Sua presenza sulla scena Europea, quale eredità ci ha lasciato e perché mai sembra che invece la politica italiana – litigiosa e incerta, divisa su tutto, persino all’interno della stessa attuale coalizione di Governo – possa all’atto pratico eludere le indicazioni di metodo suggerite da Mario Draghi, presentandosi agli appuntamenti europei con una immagine e una potenzialità negoziale indebolite?

Mario Draghi è stato un grande statista e non solo un dirigente della Banca centrale. Il suo quantitative easing ha conseguenze politiche potenti, lo vediamo nella sentenza della Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe che si è pronunciata proprio contro la legittimità del QE. Ma il dado è tratto e la risposta della Corte Europea è dirimente. Del resto, uno dei principi che animano il diritto è quello, anche nell’errore, della reiterazione del fatto. Siamo quindi in presenza di qualcosa di irreversibile: Mario Draghi con la sua visione economica e politica ha plasmato l’Unione Europea rendendo la BCE simile alla Federal Reserve, cosa che non era inizialmente prevista. Da qui la contestazione della Consulta tedesca. Draghi ne era consapevole e ancora oggi le sue parole suonano come profetiche: “ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro” è una frase che sarà contenuta nei libri di storia. Draghi ha gettato le fondamenta per quella che è l’Unione europea dopo il crollo di Lehman Brothers, avvenimento che ha fatto barcollare il mondo. Detto questo, Draghi ci manca molto. Ma resto dell’idea che è una presenza influente anche oggi, persino Di Maio ha chiesto di essere ricevuto da lui. Mi auguro, ma sono convinto che se lo augurano molti italiani, che nel 2022 Draghi sarà l’uomo che il Parlamento manderà al Quirinale. Sarà allora che probabilmente assisteremo ad un nuovo corso politico.

L’avvento della digitalizzazione, dematerializzando produzioni e prodotti, consente la possibilità di un minore impatto ambientale: ci sono segnali forti sullo stato malconcio del pianeta, a cominciare dal citato Rapporto ONU sulla possibile estinzione della vita sul pianeta, la prima per mano dell’uomo.Nel Suo libro, dunque, ripartenza verde e digitalizzazione sono due percorsi paralleli e complementari: mi pare che Lei evidenzi la drammatica urgenza di una inversione di rotta rispetto al consumo del pianeta. Ce ne vuole dare conto?

Si certo, è così. La lotta al cambiamento climatico è anche la lotta ad un minor consumo di risorse e di materie prime. Si discute tanto di crisi climatica e riscaldamento globale ma la discussione, quella seria, è sulla possibile origine antropica, non sul fenomeno in sé che è fatto acclarato: non a caso si stanno sciogliendo i ghiacciai. E come dicevo, e come richiama Lei nella domanda, lo sviluppo sostenibile è conseguenza della digitalizzazione dell’industria. Soprattutto in merito ai problemi dell’inquinamento, del riscaldamento globale e della crisi climatica, ad oggi ha prevalso l’idea – ispirata da quello che possiamo definire ambientalismo ideologico – che la soluzione fosse deindustrializzare, chiudere le industrie. Per qualcuno, ambiente e salute sarebbero agli antipodi rispetto a ciò che è industria. Le cose naturalmente, e fortunatamente, non stanno in questi termini. Perché? Perché il digitale, il nuovo motore, ha introdotto un nuovo modello produttivo, oltretutto soggetto a evoluzione potente e velocissima, basato sul minor consumo di risorse. Sta a noi proseguire su questa strada, sfruttando anche la combinazione tra tecnologia e fonti energetiche alternative.

Sulla digitalizzazione come processo irreversibile a matrice scientifica (quindi inteso come evoluzione della tecnica in funzione di una sostenibilità antropologica e ambientale) ho alcune riserve che Le chiedo di confutare.
La prima riguarda il target di utenza coinvolta: vedo una sorta di selezione naturale che espunge gli anziani dall’uso delle tecnologie complesse e quindi dalle relazioni umane, condannandoli alla solitudine.
La seconda riguarda la sua applicazione in campo educativo, e scolastico e della formazione: l’esperienza recente della didattica a distanza durante il lockdown ha sortito esiti e risultati inferiori alle aspettative. C’è stato un grande movimento di opinione tra famiglie e docenti che ha invocato il ritorno alla didattica in presenza, centrata sulle relazioni umane.
La terza obiezione è di carattere generale: vedo nel processo di digitalizzazione un progressivo e pervasivo passaggio di dati, informazioni, conoscenze dall’interno all’esterno della mente umana. Mi domando se questa cultura archiviata in terminali elettronici possa essere utilizzata e custodita e quanto il pensiero pensante, l’intuizione, la liberalità della divergenza possano correre il rischio di soccombere di fronte al pensiero pensato conservato nelle scatole elettroniche. In Finlandia è stato abolito l’uso del corsivo nell’apprendimento della letto-scrittura. Si impara a leggere e a scrivere con il tablet. Non la considera una grave limitazione alle libertà individuali e un pericolo di creare una società anaffettiva?

Quelli che Lei richiama sono tutti problemi seri. Ma le faccio una domanda: non crede che con l’affermazione della macchina a vapore si ponesse, in un certo senso, un problema simile di trasformazione sociale? Eppure, quello – come dice Andrew McAfee – è stato il “primo grande balzo in avanti della storia dell’umanità”: pensiamo infatti allo sviluppo economico, demografico e sociale che ne è conseguito. Bene, oggi siamo dinnanzi al secondo balzo. Perché dovremmo temere? L’industria è stata e continua a essere il sistema tecnico più sofisticato che abbiamo inventato e sviluppato per coniugare le risorse della terra e il lavoro dell’uomo, quello fisico come quello intellettuale. È il più grande prodotto della scienza moderna. Oggi, come Lei dice, siamo nel cuore della rivoluzione digitale, che è la rivoluzione dell’industria, quella che chiamiamo Industry 4.0. Questo è diventato con gli anni il mio principale oggetto di studio che al Prof. Giorello interessava molto perché è prova evidente del fatto che non è l’ideologia a cambiare il mondo ma la tecnica, perché questa è il vero contenitore in cui ricade la forma più alta di conoscenza: la tecnologia e le macchine non sono infatti nient’altro che idee della scienza in marcia diceva Giorello. Scienza e tecnica si fanno luce a vicenda, il loro rapporto è circolare, vive di continui riflessi. E così è sempre stato, soprattutto nell’antichità, quando ancor prima che l’uomo fosse in grado di porsi le domande fondamentali sulla propria esistenza, già era capace di creare strumenti tecnici, persino per formarne degli altri. Ovviamente la significatività della crescita tecnico-scientifica non deve minimamente far dimenticare la riflessione etica sulla condizione umana: altrimenti, il successo tecnologico può diventare un idolo. E di idolatria, diceva Giorello, non abbiamo alcun bisogno. Queste sono le ragioni per cui dovremmo allontanarci da atteggiamenti ostativi all’innovazione, dovremmo seriamente caricarci sulle spalle il processo di trasformazione. Questa è la nostra sfida, gestire la trasformazione. Che significa, lavoro, scuola, città, anziani… il digitale è pervasivo, ma siamo solo all’inizio: col tempo troveremo i giusti equilibri.

Sostenibilità, energie rinnovabili, economia circolare: sono tre elementi costitutivi per la postulata ripartenza verde. Tuttavia, dobbiamo fare i conti anche con noi stessi: siamo 7,7 miliardi di esseri umani. Il biologo Edward Wilson ha affermato che oltre i 6 miliardi scatta un semaforo rosso. Oltre ci sono il rischio di bioestinzione graduale, il riscaldamento climatico, lo scioglimento dei ghiacciai, lo stesso Covid-19 generato da una umanità impreparata che violenta la natura e distrugge il pianeta, come ha affermato il Prof Benini. A fine secolo saremo circa 11 miliardi. Ce la faremo? Ci sarà posto per tutti? Il Suo libro apre a questa speranza ma mi pare che anche a Lei non sfugga l’urgenza di cambiare molte cose della nostra vita, subito.

Questi rischi non vanno minimizzati ma allo stesso tempo non condivido paure e teorie dell’apocalisse ambientale e climatica alimentate anche da questi studi demografici. Giorello mi ha insegnato a rifuggire dagli schemi preordinati che in qualche modo vogliono sciogliere l’enigma della storia, come per esempio voleva Marx. Sono invece gli uomini con le loro scoperte scientifiche che possono di continuo cambiarne l’apparente direzione. E una vera e propria direzione della storia in sé e per sé non esiste, il suo corso è imprevedibile perché, in particolare, è imprevedibile l’evoluzione scientifica e tecnologica. Il digitale è il nostro alleato nella sfida ambientale e siamo solo all’inizio delle potenti innovazioni combinatorie. Vedremo cosa succederà, tra soli 10 anni potremmo accorgerci di vivere in un mondo completamente diverso da quello attuale. E ho la sensazione che sarà un mondo migliore.

La strage di Sant’Anna di Stazzema

Per la Festa di Sant’Anna del 1944, Mercoledì 26 Luglio, arrivò la disposizione tedesca di evacuazione di tutto il territorio di Sant’Anna di Stazzema nella zona di Camaiore.
Per trovare il paese di Sant’Anna, frazioncina di Stazzema, Provincia di Lucca, a 660 metri sul mare, appollaiato su un contrafforte delle Apuane, bisogna proprio volervisi recare, è più difficile che trovare i paesi intorno a Monte Sole e Marzabotto in zona Sasso Marconi.

Ma il 12 Agosto del ’44 il Capitano Anton Galler (non Reder quindi, come anche tanta vulgata comunista insistette per decenni dopo la Seconda Guerra; un criminale ‘unico’ per molte stragi, in galera a Gaeta, risolveva molte cose…), il fornaio austriaco Anton Galler, della terroristica 16. Panzergrenadier-Division “Reichsfüher-SS” (come Reder), portata in Italia per fare la guerra ai civili, risalì fino a Sant’Anna e sterminò 560 persone.

Attribuita ogni strage a Reder, ‘chiusa’ quindi, colpevolmente d’accordo tutti, la ricerca dei singoli volenterosi carnefici, di cui molti tedeschi giovanissimi, altri dell’Est (ucraini etc.), il volenteroso Anton Galler è potuto morire tranquillo a 90 anni in Spagna nel 1995. Vi si era rifugiato poco prima che la Procura Militare di La Spezia cominciasse a spulciare con pazienza i tantissimi fascicoli rinvenuti nell’ormai tristemente famoso ‘armadio della vergogna’, dove con una incostituzionalissima “archiviazione provvisoria”, nel 1960, fu messa una coltre oscura sulle nefandezze delle SS – ma anche della Wehrmacht – ai danni di migliaia di civili italiani. (Vabbè, c’era la Guerra Fredda.) Non c’è che dire: una delle perle – purtroppo – della prima repubblica. La credibilità si erode anche così; il tempo arriva… .
Da notare: in fatto di disumanità (è un dato) nelle SS si distinsero gli austriaci: austriaco era il Comandante di Treblinka (che come ormai si sa fu peggio di Auschwitz), Franz Stangl, un umile poliziotto, austriaco era Walter Reder, austriaco era il Galler di Sant’Anna, austriaco era Albert Meier, un caporale ventiquattrenne specializzatosi nel mitragliare donne e bambini nella tragica settimana di Marzabotto (morto nel suo letto da convinto nazista: “Loschi bacilli, hanno avuto quel che si meritavano”). E naturalmente tutti ‘cattolici’.

Gitta Sereny scrive un resoconto insuperabile, “In quelle tenebre”, Adelphi, intervistando in carcere Franz Stangl, di Treblinka; finita l’intervista, ‘liberatosi’ di tanto peso, muore d’infarto.
Per capire la mentalità popolare che dette una bella mano ai Nazisti bisogna proprio leggere “In quelle tenebre”. Scritto con quel distacco storico oggettivo con cui solo gli inglesi riescono a trasformare un fatto passato in una terribile cronaca di oggi.

Le lunghe giornate del luglio ‘43

Le bombe su San Lorenzo, a Roma, la solitudine di Pio XII, gli insulti a Vittorio Emanuele III, l’Odg Grandi e l’arresto di Mussolini. Tutto, o quasi, si decise nel giro di poche ore, tra il 19 e il 27 luglio 1943. 

Per l’Italia erano in ballo il destino e il futuro, ma in realtà era tutto il mondo a restare col fiato sospeso: lunedì 19 luglio Roma fu bombardata per la prima volta dagli Alleati (sotto le macerie di San Lorenzo e nell’area di Porta Maggiore – Piazzale del Verano rimasero 3.000 vittime). La notte del 24, tra le mura di Palazzo Venezia, il Gran Consiglio del Fascismo – a seguito dell’ordine del giorno Grandi – destituì Benito Mussolini, il quale fu successivamente prelevato da Villa Ada (allora residenza del re) e arrestato seduta stante. Nel mezzo, la drammatica visita di Pio XII (per altro l’unica autorità presente nel paese ancora con una sorta di indipendenza decisionale) nelle zone colpite dai raid e gli insulti della folla (con tanto di sputi e sassate) al sovrano, anch’egli recatosi nei quartieri bombardati. Era l’epilogo di una situazione ormai fuori controllo da diverse settimane, allorché gli alti comandi si erano resi conto della follia di un conflitto già perduto in partenza per motivi di inefficienza militare. E l’attacco su Roma, che scosse le coscienze di milioni di persone, fece degenerare inesorabilmente la situazione. 

L’esautoramento del regime per vie formali era un disegno pianificato da tempo. Capo-corrente di questa pianificazione era lo stesso Vittorio Emanuele, ormai consapevole (con gravissimo ritardo) della tragedia che si stava abbattendo sulla nazione e sui cittadini civili in particolar modo. Dobbiamo ricordare in tal senso – per l’ennesima volta –  che a determinare la caduta del regime non fu la protesta popolare, ma una congiura programmata presso le alte stanze della corona la quale fu appoggiata da tutte le componenti moderate facenti capo all’ex governo fascista: industriali, filo-monarchici e conservatori. In seguito, come sappiamo, anche l’estremo disegno di garantire la sopravvivenza della monarchia si rivelò tanto inutile quanto inefficace, fermo restando le pesanti responsabilità di casa Savoia circa le tragiche condizioni in cui versava il paese. L’annuncio della caduta di Mussolini fu accolto con grandi manifestazioni di esultanza, ma senza spargimenti di sangue. Il movimento fascista, infatti, che per un ventennio aveva occupato la scena politica italiana, implose mestamente insieme alle sue organizzazioni collaterali e ai suoi organi contigui ancor prima che si insediasse il governo provvisorio. Quest’ultimo, costituitosi hic et nunc il 27 luglio intorno alla figura del maresciallo Pietro Badoglio, era composto esclusivamente da personaggi legati all’ambiente militare e scevri da qualsiasi schieramento politico. 

Di fatto, la gioia che suscitò la riconquistata libertà nella popolazione fu minore rispetto alle grandi aspettative riposte in una veloce fine del conflitto, che sarebbe stata – quella si – la definitiva fine di una tragedia senza precedenti nella storia dell’Italia. L’uscita dalle ostilità, tuttavia, si sarebbe rivelata tragica quanto o forse ancor più della guerra stessa.

Luglio senza stranieri costa 3 mld

Un mese di luglio senza stranieri in vacanza in Italia è costato più di 3 miliardi al sistema turistico nazionale per le mancate spese nell’alloggio, nell’alimentazione, nei trasporti, divertimenti, shopping e souvenir. E’ quanto emerge da una analisi della Coldiretti sugli effetti dell’obbligo di quarantena reso necessario dall’aggravarsi della situazione a livello mondiale con il record di 16 milioni di contagi  e della diffidenza dei cittadini provenienti da Paesi dell’Unione Europea nonostante l’apertura delle frontiere.

Lo scorso anno in Italia ci sono stati oltre 8 milioni di cittadini stranieri che hanno pernottato a luglio in Italia che quest’anno con la diffusione del coronavirus sono stati praticamente azzerati dalle preoccupazioni e dai vincoli resi necessari per affrontate l’emergenza coronavirus, secondo l’analisi Coldiretti su dati Bankitalia.

L’estate senza turisti stranieri impatta sull’intero indotto turistico a partire dall’alimentazione che in Italia secondo la Coldiretti pesa circa 1/3 dell’intero budget delle vacanze dei turisti per i pasti nei ristoranti fino ai gelati ma anche per l’acquisto di souvenir. Ai danni diretti – precisa la Coldiretti – si aggiungono quelli indiretti perché viene a mancare l’effetto promozionale sui prodotti Made in Italy all’estero con i turisti stranieri che continuano a ricercali una volta tornati nei paesi di origine determinando una spinta all’export nazionale.

L’Italia infatti è leader mondiale incontrastato nel turismo enogastronomico – continua la Coldiretti – grazie al primato dell’agricoltura più green d’Europa con 304 specialità ad indicazione geografica riconosciute a livello comunitario e 415 vini Doc/Docg, 5155 prodotti tradizionali regionali censiti lungo la Penisola, la leadership nel biologico con oltre 60mila aziende agricole biologiche e la piu’ grande rete mondiale di mercati di agricoltori e fattorie con Campagna Amica.

Il gap provocato dall’assenza di turisti stranieri non è stato compensato dai 13,5 milioni di italiani che hanno deciso di andare in vacanza a luglio, in pesante calo del 23% rispetto allo scorso anno a causa delle incertezze, paure e difficoltà economiche, secondo l’analisi Coldiretti/Ixe’. Le vacanze 2020 registrano comunque una netta preferenza degli italiani verso le mete nazionali – sottolinea la Coldiretti – per il desiderio di sostenere il turismo nazionale ma anche per i limiti e le incertezze ancora presenti per le mete estere piu’ gettonate a partire dagli Stati Uniti ma anche all’interno dei confini europei. L’Italia è dunque di gran lunga la destinazione privilegiata che – continua la Coldiretti – è stata scelta come meta dal 93%.