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La Voce del Popolo | La svolta di Meloni in Europa

La scelta di Meloni di non votare per Von der Leyen, dissimulata come una forma di coerenza, segna piuttosto una svolta e annuncia una difficoltà. E la prima volta che un governo italiano vota contro un “governo” europeo. Ed è la prima volta che la nostra premier sbaglia una mossa cruciale sullo scacchiere internazionale. Quel voto contro evoca infatti una destra che si pone fuori dal mainstream continentale e scommette su di uno scenario nel quale il nazionalismo la fa da padrone.

È evidente che questa svolta di Meloni ha qualcosa a che vedere con l’emergere di Trump sullo scacchiere americano. Come a volersi ricollocare in un campo di destra a cui le presidenziali negli Usa promettono grandi cose. Salvo il fatto che il nazionalismo di una grande potenza può essere una prospettiva, ancorché egoista. Mentre il nazionalismo di un paese più piccolo non promette quasi nessun vantaggio a chi lo pratica.

Peraltro il voto contro dell’Italia meloniana ha rinfocolato anche le polemiche dentro la sua stessa maggioranza. Spingendo il mite Tajani, e soprattutto la famiglia Berlusconi, ad alzare un po’ la voce. E dando fiato alle trombe di Salvini, che da quelle parti è il nemico più insidioso del primato di “Giorgia”.

Piccoli segni, incrinature non troppo preoccupanti, si dirà. Eppure resta il fatto che una maggioranza divisa sulla politica estera e con una guida piuttosto ondeggiante a questo riguardo espone il fianco a tutte le difficoltà del mondo. Controversie che riguardano anche l’opposizione, ci mancherebbe. Peccato che due problemi non facciano quasi mai una soluzione.

 

Fonte: La Voce del Popolo – 25 luglio 2024

Titolo originale: Un voto contro che non porta da nessuna parte.

[Testo qui riproposto per gentile concessione del direttore del settimanale della Diocesi di Brescia]

Trump in difficoltà, la Harris in rimonta: la competizione è apertissima.

Lo schieramento dem, con largo consenso e prima delle primarie, si è già pronunciato in favore della Harris e non ci dovrebbero essere sorprese, specie se da parte sua ci fosse l’impegno acoinvolgere nel ticket un governatore di uno stato decisivo, uno degli stati che possono fare la differenza ai fini della vittoria finale.

Intanto la candidata alla presidenza ha dalla sua un effetto altrettanto decisivo, finora bloccato, ovvero la pioggia di finanziamenti non minore di quella trumpiana, anche grazie al sostegno di Biden, adesso percepito nuovamente come garanzia di affidabilità. E proprio per Biden, per la sua generosità e lungimiranza, non mancano grandi apprezzamenti. Giocano a suo favore l’andamento positivo dell’economia e la coraggiosa opera di tamponamento dell’assalto geopolitico portato dall’accoppiata russo-cinese, sia in Ucraina che in Palestina. L’America ha saputo lanciare messaggi di apertura anche a forze intermedie di tutta l’area medio-orientale, temendo che possa accendersi la miccia di una terza guerra mondiale, ovviamente per procura.

L’azione di contenimento nei confronti di Netanyahu, succubo dei coloni interessati ad ampliare i loro territori, è stata molto ferma. D’altronde, quel mondo estremista che preme su Netanyahu costituisce una costante provocazione da cui prende linfa, per contrasto, la reazione dei nemici di Israele, protesi come gli iraniani a una vera e propria guerra di religione.

Tornando ad Harris e al suo curriculum, risulta che il motivo preminente che portò Biden ad averla sua vicepresidente, si debba al prestigio acquisito come procuratrice della California. È vero, è rimasta in ombra in questi anni, non ha avuto incarichi particolarmente significativi, tali da metterne in luce le indubbie qualità; ma questo, paradossalmente, ha evitato che la sua personalità fosse minata da eventuali contrattempi o scivoloni.

Insomma, Kamala Harris piace e può vincere. Come ex procuratrice è l’incubo di Trump, appesantito da troppi guai con la giustizia. In sostanza, ad essere in affanno adesso è proprio Trump. Oltretutto, il fatto aver chiamato al suo fianco un clone, espressione della destra radicale, invece di un moderato della migliore tradizione repubblicana, lo rende alquanto vulnerabile. Ecco la nuda rappresentazione di questa campagna elettorale: da un lato la giovane e dinamica vice di un presidente che esce a testa alta dalla Casa Bianca, dall’altro il vecchio presidente che ne usciva quattro anni fa con disonore: non ci sono dubbi su quale debba essere per noi il volto dell’America. Che sia, poi, il volto di una donna, non può che rappresentare un motivo aggiuntivo di fiducia e di speranza.

La riforma dell’ordinamento locale in Sicilia: i giochetti dell’Assemblea regionale.

È veramente paradossale! Mentre il parlamento nazionale licenzia definitivamente la legge sull’autonomia differenziata e la regione Veneto, bruciando tutte le tappe, spedisce alla premier Giorgia Meloni e al ministro per gli affari regionali Roberto Calderoli una lettera con la quale chiede ufficialmente di riaprire la trattativa stato-regione sulle nove materie previste dall’art. 116.3 cost. che non richiedono la previa definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP), l’assemblea regionale siciliana – dopo aver bocciato nel febbraio scorso con un atto di coraggio il disegno di legge presentato dal governo Schifani che reintroduceva in Sicilia le province, l’elezione diretta dei loro organi e quella degli organi delle città metropolitane – ora, presa da timore reverenziale nei confronti della corte costituzionale e da accondiscendente ossequio all’indirizzo politico statale, tenta di far approvare alla propria maggioranza (in prima commissione “affari istituzionali”) una norma (ddl. n. 738) che abbandonando ogni ambizione di riforma organica della governance locale stabilisce soltanto i termini entro i quali celebrare le elezioni di secondo grado degli organi dei liberi consorzi comunali e dei consigli metropolitani.

Naturalmente, per il vero, non è né timidezza istituzionale né sottomissione alla forza delle gerarchie politiche che spingono ad agire in questa direzione l’assemblea siciliana. Si tratta, invece, di un vero e proprio “colpo di mano”! Perché l’intento ultimo della maggioranza di governo è quello di conquistare, nelle more del cambiamento annunciato della legge nazionale 56/2014 (cd. “Delrio”), la guida di tutti e sei i liberi consorzi e delle due più grandi città metropolitane siciliane (difficile pensare che anche Messina possa essere acquisita dall’attuale maggioranza politica regionale stante la massiccia presenza del movimento Sud chiama Nord guidato da Cateno De Luca).

E così, ancora una volta, dal tentativo velleitario di dettare una disciplina riformatrice (seppure poco ponderata) del governo locale – che ormai non si regge più per la mancanza di enti di “area vasta”, per la crisi dei comuni (piccoli e grandi) e la paralisi della stessa regione ormai sommersa da poteri di gestione che non riesce più ad amministrare – si passa al solito traccheggio di discipline normative provvisorie dettate nella (peraltro illusoria) convinzione di poterle finalizzare ai propri interessi di parte. Invece che al bene ed al riscatto della Sicilia!

Anche in questo frangente della storia istituzionale che invece – come nel 1992 quando, pur essendo una regione in pre-coma, ebbe la forza istituzionale di inventarsi con la legge n. 7 l’elezione diretta del sindaco per opporsi al decadimento della politica ed indicare all’intero Paese una via d’uscita dalla crisi dei partiti e dalla decadenza della democrazia- invoca chiaramente una svolta nella governance dei territori e delle comunità locali.

 

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Orgogliosi di Sinner: un esempio di stile e serietà.

Un grande campione dello sport è tale non solo per il valore atletico ma anche per le qualità umane: insieme queste doti ne fanno un personaggio unico nella sua specialità. L’ascesa di Sinner in questi ultimi anni è stata qualcosa di prodigioso anche in considerazione della giovanissima età: ha rapidamente scalato in modo incalzante, vertiginoso e dirompente tutte le classifiche del tennis mondiale fino a diventare il numero uno del range ATP, battendo tutti i migliori tennisti in circolazione e vincendo tornei di altissimo prestigio.

Quando da adolescente iniziava questa fantastica galoppata che lo ha portato ai vertici, probabilmente seguiva le prodezze di altri grandi campioni che lo hanno preceduto, ammirandoli e prendendoli ad esempio ma con un’idea fissa in testa: diventare il numero uno. Dirlo o raccontarlo è facile, ma lui e i sui preparatori atletici, lo staff che lo ha circondato di attenzioni e consigli sanno benissimo – e lo hanno sperimentato – che dietro grandi e continuative vittorie ci sono giorni e giorni di dura preparazione e fatica, di oscuro sacrificio, di meticoloso apprendimento delle tattiche e delle strategie di gioco, di affinamento di ogni colpo di racchetta, dalla battuta al palleggio, ai lungolinea micidiali e ai passanti incrociati che lo hanno reso ineguagliabile, un vero talento, una forza della natura che è andata via via perfezionandosi sino ad ottenere i risultati strabilianti ai quali ci ha abituati.

Eravamo orfani da tempo di grandi campioni, possiamo dire in molte discipline sportive, ma Sinner e altri talentuosi campioni, soprattutto dal nuoto all’atletica, ci hanno restituito l’orgoglio di essere rappresentati in vari ambiti ai massimi livelli. Sinner ha conquistato i cuori e il tifo della gente fino all’immedesimazione, fino a sentirsi parte delle sue emozioni, dei suoi gesti atletici, ammirati da tanta bravura. Ma ciò che lo ha reso unico, un vero esempio per tutti e in primis per i giovani è la sua innata e coltivata educazione, il suo stile mite e mai supponente, il saper anteporre l’autocritica (anche quando non ce n’è bisogno) alla celebrazione di sé e delle sue performance, la sua mitezza e la sua umiltà: questi sono valori che rendono leggendario un campione dello sport.

La sua grande umanità, la capacità di saper parlare a tutti, la sensibilità e il rispetto sempre rivolti ai suoi avversari ne hanno fatto un ragazzo maturo, un vero valore aggiunto per chi pratica un’attività sportiva dove la competizione e l’agonismo non devono mai offuscare i sentimenti e la naturalezza dell’approccio con cui si affronta una gara, un match nel suo caso, preparati a vincerlo ma ben disposti ad accettare anche una sconfitta come punto di partenza per migliorarsi, per rivedere eventuali errori ed emendarli. Mai una polemica, neanche di fronte ad evidenti errori arbitrali, una naturalezza che è il talento innato e virtuoso dei grandi campioni, la capacità di usare riguardo e gentilezza, ricordiamo tutti quando reggeva l’ombrello alla raccattapalle in una pausa del match, conversando con lei come si fa con amici conosciuti da tempo.

I veri grandi sono persone semplici e – come mi disse in una intervista un altro grande altoatesino, Reinhold Messner – in loro “le dimensioni umane nascoste sono più interessanti di quelle trionfalistiche”. Si guarda e si ammira l’eroe, il fuoriclasse ma si trascura spesso – nel fargli elogio – la grande umanità che è in lui. Capita ora che Sinner debba rinunciare a partecipare alle Olimpiadi – che tanto sognava, fino a essere nella sua mente la competizione più prestigiosa e rappresentativa di un’appartenenza, quella di essere testimone del suo Paese – e credo che si tratti di un’assenza forzata dolorosa: il cuore lo portava a Parigi ma una banale tonsillite (impedimento dirimente per un atleta) lo ha fermato. Penso al suo rammarico, apprezzando la sua grande e spontanea sensibilità – penso quasi ad un dolore vissuto intimamente e non compensabile.

Anche in questo caso Sinner, pur esprimendo il dispiacere di non essere presente e dimostrare il suo valore, ha saputo metabolizzare questa rinuncia imposta da motivi di salute per guardare oltre. Ci sono altri traguardi che lo aspettano, quattro anni passano in fretta e alle prossime olimpiadi Sinner sarà ancora giovanissimo e il campione da battere. Verranno altri tornei e lui sarà presente, preparato, pronto a misurarsi, desideroso di vincere. Siamo tutti orgogliosi di questo ragazzo e personalmente sono commosso dall’aver letto che il suo più grande dispiacere è quello di non poter rappresentare il suo Paese. Dobbiamo imparare da questo giovane atleta e grande campione tutte quelle doti, quei valori umani che andiamo cercando nella nostra vita e che la società ha troppe volte dimenticato.

La sua lealtà, la sua serietà, la sua forte motivazione lo accompagneranno – ne sono certo – in altre grandi imprese.

Rinnovati gli organi dell’ANDC, l’associazione dei democratici cristiani.

L’ANDC è chiamata a proporsi come soggetto propulsivo di un nuovo indirizzo politico, “per promuovere l’affermazione dei programmi d’azione civile e politica, ispirati alla dottrina sociale cristiana” (Statuto-Art. 1). Occorre pertanto lavorare alla declinazione del messaggio degasperiano sul “centro che marcia verso sinistra” (avendo lo statista trentino, dopo la rottura con i comunisti, composto i suoi governi con i partiti laici e socialisti, non solo con l’ala moderata costituita dai liberali). La coalizione tra riformisti è il cuore della politica degasperiana. Per questo è necessario, oggi più che mai, riformulare il criterio che qualifica l’azione dei cristiani nel mondo. Dobbiamo tornare alle origini e riscoprire il dinamismo insito nella dialettica tra democrazia e cristianesimo.

La Settimana sociale dei cattolici (3-7 luglio 2024) ha registrato la novità più importante proprio nel passaggio in cui, parlando ai delegati, Papa Francesco ha detto: “In Italia è maturato l’ordinamento democratico dopo la seconda guerra mondiale, grazie anche al contributo determinante dei cattolici. Si può essere fieri di questa storia […] e, senza mitizzare il passato, bisogna trarne insegnamento”. Con queste parole si chiude il capitolo che ha visto la Chiesa italiana impegnata sul finire della Prima repubblica a riassorbire, se così può dirsi, il fenomeno del cattolicesimo politico; e ciò a prescindere dalla “realtà” della Dc, finendo per rimettere perciò in auge un protagonismo – nuovo in apparenza ma vecchio nella sostanza – oscillante tra neoguelfismo e Opera dei Congressi, tanto da cedere in corso d’opera a una vana rimembranza politico clericale.

Ora, se l’esempio offerto dai cattolici nel secondo Novecento è da considerarsi meritevole di attenzione per trarne spunti validi per l’azione d’oggi, allora emerge la necessità di un radicale ripensamento del perché e del come ripudiamo la “mitizzazione” denunciata da Francesco, lavorando piuttosto a una diversa e più avanzata riconnessione dei termini di “cristiani” e “democratici”. La sostanza politica non sta nella riscrittura della identità anagrafica di un soggetto – in questo caso l’ANDC –  ma nel concetto che ne sostiene una eventuale rimodulazione chirurgica (una “e” che s’interpone tra i due aggettivi). In ogni caso, la questione rimane sullo sfondo come oggetto di confronto, lasciando che in questa fase cresca un dibattito sereno e costruttivo, senza l’urgenza di una eventuale deliberazione.

Serve prendere atto che nella società la soggettività democristiana (piena e diretta) non esiste più, mentre persiste e anzi si rafforza un senso di nostalgia, ovvero un ricordo positivo, per ciò che la Dc ha saputo rappresentare. Dunque, a questo livello, si profila la necessità di riorganizzare un pensiero che trasformi il sentimento in ragione politica, scegliendo un nuovo linguaggio. Anche i Magi, si legge nel Vangelo, fecero ritorno al loro paese passando per un’altra via.

In effetti, dinanzi alla dissoluzione del dato di naturalità e creatività dell’umano, così come implicito oggi nel messaggio del postumanesimo, l’altra via da scegliere è quella della ricomposizione delle culture afferenti a una visione di “umanesimo democratico”. È lo sforzo che dovrebbe caratterizzare un “centro” che fronteggi gli errori e i limiti di una politica giocata sull’esclusivismo della dialettica tra sinistra e destra. Il fenomeno dei due blocchi che vogliono solo durare portò Mario Motta nei primi anni ‘50 a denunciare sulla rivista “Cultura e Politica” l’ingombro rappresentato da un “principio di contrarietà statica” (comunismo-anticomunismo). Altri tempi, è vero; tuttavia, in altri modi, la “contrarietà statica” torna a pesare ancora per l’evidente insufficienza di un bipolarismo paralizzante.

Come rompere lo schema? L’ambizione è quella di favorire strategicamente la creazione di un “centro allargato” sulla scia della tradizione più incisiva della politica italiana, dall’Unità ad oggi (connubio Cavour-Rattazzi, convergenze parlamentari alla Giolitti, centrismo degasperiano, centro-sinistra di Moro). Da qui, ovvero da questa consapevolezza storica e politica, bisogna ripartire per un nuovo percorso di sviluppo umano. E l’ANDC, in tale prospettiva democratica, può ritagliarsi un ruolo di stimolo e di proposta, anche assumendo su di sé una quota di responsabilità nel disegno più ampio.

 

 

P.S. Nuovo organigramma dell’ANDC

Lucio D’Ubaldo (Presidente), Carla Ciocci, Genny Di Bert, Gabriele Papini, Francesco Amendola (Vice Presidenti), Rita Padovano (Segretario generale), Gianni Baratta (Tesoriere).

Altri incarichi: Dalila Nesci (Responsabile per la stampa), Antonello Assogna (Responsabile per la formazione), Salvatore Turano (Responsabile comunicazione, sito web e social media).

Composizione del Consiglio Direttivo

Membri eletti: Francesco Amendola, Giovanni Baratta, Carla Ciocci, Eugenio De Rosa, Genny Di Bert, Lucio D’Ubaldo, Dalila Nesci, Rita Padovano, Gabriele Papini, Giuseppe Sangiorgi.

Membri di diritto: Giulio Alfano, Antonello Assogna, Anton Giulio Ciocci, Maurizio Eufemi, Salvatore Turano, Angelo Sanza.

Trump scegliendo Vance ha sbagliato: i Democratici tornano competitivi.

Quando le mosse vengono anticipate prima del previsto, possono dimostrarsi non efficaci. Trump, a mio parere, ha inteso scegliere il suo vice secondo una logica che a questo punto potrebbe essere perdente.

Qual è stato l’intendimento del candidato Repubblicano? Dopo la sparatoria, ha pensato di svolgere un ruolo meno aggressivo, di porsi in un campo e in un atteggiamento più moderato, lasciando la parte più estrema al suo vice. Infatti, ha scelto Vance perché rappresenta l’ala più oltranzista dei conservatori americani. Ricordiamo che Vance è frutto del pensiero americano definito post-liberale. Già questo fa capire quale sia la posizione di questo giovane.

La mossa dei Democratici ha messo in crisi la strategia del candidato Repubblicano. Primo, perché sottraendo dalla scena la figura più anziana, concede a Trump la “fortuna” di prenderne il posto; secondo, perché la probabile candidata Harris mette in campo il genere femminile e Trump non potrà fare un nuovo ticket e ciò sicuramente indebolisce le sue possibilità; terzo, scegliendo Vance, si è tolta la possibilità non solo di mettere una donna, ma di promuovere una figura che potesse rubare i consensi anche ai Democratici.

Così Trump si trova potentissimo sul versante del mondo conservatore, ma non invece nella possibilità d’incettare i voti di quelli che stanno a metà strada tra Democratici e Repubblicani.

Non c’è pertanto da meravigliarsi se ieri [l’altro ieri per chi legge, ndr] i sondaggi hanno fatto balzare al primo posto Harris.  Il risultato finale non è per niente scontato. Può capitare di tutto. Sembrava una partita chiusa prima di iniziare e improvvisamente si riaprono i giochi. Se la candidata dei Democratici facesse una scelta di un vice complementare alla sua figura, cosa che le è data, potrebbe far vedere ancora al suo partito la possibilità di continuare a governare gli Stati Uniti d’America. Comunque, saranno sicuramente tre mesi all’arma bianca. E dovremo attendere proprio lo spoglio di voti per sapere cosa riserva il destino per la Casa Bianca.

 

[Testo tratto dal blog dell’autore]

Un governo in affanno, un’alternativa da costruire.

Tira una brutta aria a livello geopolitico per le tante guerre in corso col rischio elevato, enunciato dal ministro della difesa inglese, di una terza guerra mondiale. Una situazione tanto più delicata per un Paese come l’Italia, la cui politica estera è a trazione divergente tra l’atlantismo della presidente e del ministro degli esteri e il filo putinismo di Salvini.

Una situazione unica nella storia della repubblica italiana quella di un governo sostanzialmente diviso sulla politica estera.  Una divisione che si estende anche con riferimento alle elezioni presidenziali americane, con Tajani in equilibrio prudente tra i due contendenti e Salvini dichiaratamente schierato pro-Trump. Il voto contrario della Meloni  alla rielezione di Ursula von der Leyen a presidente dell’esecutivo UE, auguriamoci che non appanni l’atlantismo apertamente abbracciato dalla presidente del consiglio e sempre confermato, anche se la diversa posizione dei due vicecapi di governo consegnano l’Italia alla tradizionale condizione di dubbia affidabilità per i partner internazionali. Prime avvisaglie le recenti indicazioni delle presidenze di commissione nel parlamento europeo, in attesa di vedere ciò che accadrà nella formazione dell’esecutivo.

Certo Meloni col suo NO alla Von der Leyen appare molto più vicina a Salvini che a Taiani e questo non giocherà certamente a favore dell’Italia nell’assegnazione del commissario nel governo europeo che si sta costruendo.

D’altra parte, anche sui temi istituzionali del governo di centro destra si è espressa criticamente la commissione UE, sulla base delle indicazioni dell’associazione dei costituzionalisti europei, giungendo a formulare esplicite riserve sulle modifiche annunciate su magistratura e  premierato dalla Meloni, ossia sui meccanismi di check and balances previsti nella Costituzione italiana, sollevando anche dubbi che possano portare a maggiore stabilità. Critiche altrettanto pesanti su riforma dell’abuso d’ufficio e sulla capacità di combattere la corruzione, specie tenendo presente la quantità di risorse pubbliche in gioco con i fondi del PNRR.

Si aggiunga la mancata assegnazione del ruolo di inviato per il fronte Sud della NATO, come era nella richiesta formulata espressamente dal nostro governo; la perdita del consiglio di vigilanza della Bce e la guida della Bei, tutti fatti che dimostrano le difficoltà oggettive sul piano internazionale da parte di una classe dirigente che appare ai nostri interlocutori debole e ambigua. E dire che l’Italia non è mai venuta meno, anche durante questo governo, ai numerosi impegni ai quali è stata chiamata in campo sia politico che militare.

Se in politica estera paghiamo dazio per le nostre contraddizioni, anche per  la situazione interna italiana le cose non vanno meglio per il governo. Con un debito che sfiora i tremila miliardi di euro il ministro Giorgetti ha dovuto rivedere al ribasso le previsioni di crescita rispetto alla Nadef, considerando che un deficit del 7,2% del PIL è molto lontano dal tetto del 3% previsto da Bruxelles. Ci sarà una quasi sicura procedura di infrazione per disavanzo eccessivo, mentre solo per confermare le misure che scadono quest’anno, tra bonus e una tantum, serviranno quasi 23 miliardi. Non potendo toccare spese indifferibili (quelle militari  che ci chiedono al rialzo e di sostegno alle missioni all’estero) e nemmeno fare deficit extra, il governo dovrà decidere cosa sacrificare e dove prendere i soldi alla bisogna. Tutto ciò mentre si aggrava il rapporto con i cittadini per la crisi strutturale della sanità, il conflitto apertosi con le imprese farmaceutiche e del settore sanitario (payback sui dispositivi medici) e con gli annunciati referendum, non solo sui temi del lavoro ( la CGIL è riuscita a raccogliere oltre 4 milioni di firme già depositate in Cassazione), ma, prevedibilmente, sulle tre riforme cardine degli equilibri di governo: autonomia differenziata, premierato e magistratura.

Anche sul fronte trasporti, materia del dicastero di Salvini, le cose non vanno per nulla bene, specie nel pieno di un’estate, stagione privilegiata del turismo interno e internazionale: treni,  aerei e trasporti al collasso con disagi e ritardi, ferrovie in panne, code in autostrade e nei porti.

Serve impegnarsi a costruire con pazienza e determinazione un’alternativa seria e credibile al governo di Meloni-Salvini-Tajani che, a mio parere, dovrebbe iniziare dalla base, ricomponendo nelle diverse realtà locali momenti di partecipazione democratica di natura civica, considerata la crisi prevalente generalizzata dei partiti. Una partecipazione basata sulla regola del pensare globale e agire locale, che, è la sostanza della democrazia.

Quanto emerso dalla rete degli amministratori nella recente 50^ settimana sociale dei cattolici è illuminante e a settembre è annunciato un incontro di consolidamento di quanto avviato a Trieste.Noi DC e Popolari non possiamo essere estranei da questo movimento positivo che si è avviato nella nostra area culturale, sociale e politico istituzionale. Confido che gli amici impegnati nel tavolo dei DC e Popolari favoriscano questi passaggi decisivi per la ricomposizione politica dell’area cattolica, costituendo senza rinvii il comitato di coordinamento e collegandosi col  comitato per i referendum, nel quale far sentire forte e chiara la volontà dei DC e Popolari di impegnarsi sui referendum per il NO alle tre riforme indicate dal governo.

Sarà quello il terreno nel quale, insieme a quanto emergerà dalle diverse realtà locali, si potrà sperimentare l’avvio di quel centro ampio e plurale che favorirà una possibile alternativa omogenea a quell’alleanza europea che ha sostenuto l’elezione della leader del PPE, Ursula von der Leyen, alla guida della Commissione europea.

Noi e i giganti, un libro sui testimoni dell’età conciliare.

È difficile sfuggire al fascino delle parole che Giovanni di Salisbury, nel XII secolo, attribuisce a Bernardo di Chartres, suo maestro: «Siamo come nani assisi sulle spalle di giganti, cosicché possiamo vedere più cose e più lontano non per l’acume della nostra vista o per l’altezza del nostro corpo, ma poiché siamo sollevati più in alto dalla loro statura».

L’aforisma evoca ancora oggi la questione del debito dei moderni verso gli antichi, il riconoscimento della grandezza di quanti ci hanno preceduto, il rapporto fra maestri e discepoli, e tra le diverse generazioni, ma anche la capacità e la possibilità dei moderni di vedere più lontano se sanno fare buon uso della grande opportunità loro offerta. Da una simile sollecitazione parte questo volume, riprendendo la lezione di alcuni testimoni che nell’Italia del Novecento hanno contribuito a far nascere, crescere e fruttificare l’evento del Vaticano II, per chiedersi come è possibile interpretarla per il presente e quale possa essere l’elaborazione critica ulteriore.

Nasce così questa quarantina di brevi ritratti, donne e uomini di grande carisma, veri pionieri spirituali, tra i quali ad esempio Tina Anselmi, Adriana Zarri, Aldo Moro, Mario Luzi, Lorenzo Milani, Maria Eletta Martini, Carlo Maria Martini e molti altri. A raccontarceli si sono dedicati autrici e autori che con loro hanno avuto una stretta familiarità, per amicizia, per discepolato, per frequentazione diretta o per studio assiduo, costruendo un mosaico di spunti esemplari, di esperienze coinvolgenti, di tracce nitide alla portata di noi tutti.

Forse, a distanza di sessant’anni, si sono un po’ affievoliti l’entusiasmo, la fiducia, la capacità di sognare che il Concilio aveva comunicato alla Chiesa, e alla società moderna. Ma, anche sulla spinta del pontificato di Francesco, possiamo riconoscere la preziosa eredità di queste figure luminose di donne e uomini, instancabili testimoni del Vangelo e autentici protagonisti nelle vicende della storia. Da loro possiamo lasciarci guidare alla riscoperta della lezione conciliare, ispirati da una singolare beatitudine, che invita a una diversa considerazione del tempo – il passato da custodire, il presente da onorare e il futuro che ci attende.

Beato chi coltiva in cuor suo una memoria carica di speranza.

Contribuiti di: Massimo de Giuseppe, Luciano Caimi, Gianni di Santo, Giuseppe Riconda, Davide Barazzoni, Fabrizio Mandreoli, Guido Innocenzo Gargano, Daniele Piccini, Marco Roncalli, Guido Formigoni, Marcello Brunini, Maria Cristina Bartolomei, Giovanni Ferretti, Gian Carlo Perego, Mariangela Maraviglia, Adelina Bartolomei, Fulvio de Giorgi, Daniela Mazzucconi, Bruna Bocchini, Alessandro Andreini, Gianfranco Brunelli, Luca Rolandi, Piero Coda, Pier Giorgio Grassi, Luigi Accattoli, Angelo Bertani, Beppe Tognon, Marco Vergottini, Rosy Bindi, Claudio Ciancio, Piero Stefani, Mariella Carpinello, Marco Garzonio, Fabio Ciardi, Marinella Perroni, Vito Angiuli, Domenico Mogavero, Franco Giulio Brambilla, Sergio Tanzarella.

 

Marco Vergottini (a cura di), Sulle spalle di giganti. Storie cristiane dal Vaticano II, Vita e Pensiero, 2024.

 

La sezione bibliografica, curata dalle autrici e dagli autori dei singoli profili, è disponibile online.

 

Per saperne di più

https://www.vitaepensiero.it/scheda-libro/autori-vari/sulle-spalle-di-giganti-9788834356500-396293.html

L’incompiutezza del messaggio uscito dalla Settimana sociale di Trieste.

La cinquantesima Settimana Sociale tenutasi nelle settimane scorse a Trieste ha rilanciato l’idea di un più deciso impegno dei cattolici in politica. Lo ha fatto con una certa solennità con interventi ai massimi livelli (Mattarella, papa Francesco, il cardinale Zuppi), ma senza una proposta concreta che è ancora da ricercare e da definire. Ma – questa è la domanda – c’è, oltre all’esigenza avvertita dai più, uno spazio per la partecipazione dei cattolici alla vita politica di questo Paese? Con un altro interrogativo subordinato al primo: per caso non siamo davanti ad un invito venuto fuori tempo massimo?

Le ultime elezioni per il Parlamento Europeo, nonostante la frammentazione delle forze politiche, hanno visto consolidarsi una polarizzazione destra-sinistra grazie anche alla sciagurata divisione delle due componenti di centro con l’effetto che nessun candidato di queste due compagini è approdato sugli scranni di Strasburgo e di Bruxelles. Ma, si dirà, i cattolici possono militare tanto nell’uno che nell’altro schieramento. Certo, è vero. Ma come? Possibile che i grandi temi agitati nelle giornate di Trieste siano rappresentati solo dalla buona volontà di qualcuno al di fuori di una organizzazione politica che non sia quella nella quale gli è stata concessa (interessatamente) ospitalità? È  abbastanza evidente che senza una organizzazione politica che lo esprime, ci si deve chiedere cosa e chi può rappresentare un “cattolico” da solo. Quale cultura politica, quale storia oltre la partecipazione alla vita ecclesiale? Difficile credere che il Papa, i vescovi e la Chiesa abbiano bisogno di uno o più rappresentanti individuati singolarmente e al di fuori da ogni coerenza di pensiero politico organizzato, partecipato e condiviso laicamente al livello popolare.

E poi pur con tutta la scristianizzazione in atto nel vecchio continente e in Italia non meno che altrove, è altrettanto vero che resta percentualmente cospicuo il numero dei credenti praticanti, non pochi dei quali sanno cosa è stata la Democrazia Cristiana nella storia italiana e sanno distinguere tra appartenenza religiosa e scelta politica. Per questo parlare di “cattolici” in politica significa anche una questione di numeri e porta con sé il riconoscimento di una cultura politica che non si può esaurire nel magistero sociale della Chiesa e nelle direttive ecclesiali anche molto lodevoli di carità, accoglienza e assistenza. Attività che rimandano inevitabilmente ad una visione d’insieme della società e dei confronti e conflitti che in essa si consumano e che richiedono composizioni condivise come base di un corretto consenso. E questa è la politica pratica alla quale si deve aggiungere l’enorme ricchezza di un umanismo di origine cristiana a cui oggi, nell’empietà sopraffattoria e non armoniosa della nostra società, molti non credenti guardano con interesse e speranza.

Forse venti anni fa quella descritta sopra poteva essere una prospettiva praticabile. Oggi per come sono andate le cose, vi sono ad ostacolarla maggiori e gravi criticità: l’analfabetismo religioso, soprattutto tra i giovani, è cresciuto in modo esponenziale e ciò rende assai problematica la presentazione di una proposta politica cristianamente ispirata. E se pure si aprono varchi di attenzione, non c’è ancora segnato un percorso da seguire e che invece bisogna impostare da subito. E si ritorna così al punto di partenza e cioè all’incompiutezza sul piano della politica, dell’evento ecclesiale di Trieste. È facile dire che i cattolici debbono impegnarsi in politica. Molto più difficile è dire come. Una via potrebbe essere quella di un primo coordinamento di autoconvocati che dia inizio ad una ripresa di riflessione e di iniziativa, con la consapevolezza che si tratta di un processo molto lungo e dagli esiti non scontati anche se la storia (e qui la Settimana di Trieste è certamente un riferimento) con i suoi grandi rischi sembra davvero chiamarci.

Ultima chiamata? C’è ancora tempo? Si vedrà.

Quanto la diaspora dei popolari rispecchia la loro storia e identità?

L’unità politica dei cattolici, come tutti sappiamo, è tramontata da almeno 30 anni. Un’unità a cui è seguita una sostanziale diaspora dei cattolici nella vita politica italiana. Una diaspora che, oggettivamente, ha indebolito la cultura, la specificità e l’originalità della tradizione del cattolicesimo politico italiano. Seppur nelle sue diverse sfumature. Ma, al di là delle vicende storiche che hanno accompagnato il percorso e il cammino dei cattolici democratici, popolari e sociali nel nostro paese, c’è una domanda che resta inevasa. Anche se, almeno formalmente, alla domanda c’è una immediata risposta. E cioè, il pluralismo politico ed elettorale dei cattolici italiani è oramai un dato largamente acquisito e consolidato. Ma la domanda, comunque sia, resta sul tappeto: ovvero, com’è possibile che i Popolari, cioè i migliori eredi della tradizione e della storia del cattolicesimo politico italiano, siano presenti in quasi tutti i partiti italiani? Certo, quasi in tutti partiti perché non possiamo neanche prendere in considerazione i partiti populisti – e cioè il partito dei 5 Stelle e la Lega di Salvini – che sono e restano antropologicamente alternativi rispetto alla cultura e alla storia del popolarismo di ispirazione cristiana. Ma, per quanto riguarda gli altri partiti, i Popolari sono presenti e senza alcun problema di compatibilità, o coerenza, politica/ culturale e valoriale.

Ora, e senza entrare nelle dinamiche concrete delle singole appartenenze partitiche e preso atto della buona fede di ciascuno, forse – e tenendo conto dell’attuale geografia politica italiana – c’è un unico criterio che misura la potenziale coerenza dei cattolici nello scenario politico contemporaneo. E il criterio è rappresentato da chi, attraverso il suo impegno politico concreto, si pone l’obiettivo di costruire il Centro e la ‘politica di centro’. E questo perché a fronte della crescente radicalizzazione del conflitto politico, del radicalismo e del massimalismo che caratterizzano il comportamento concreto di molte forze politiche e di ricette politiche e programmatiche che prescindono dai valori e dai principi del cattolicesimo popolare e sociale, l’iniziativa politica dei Popolari non può che convergere con chi persegue un progetto politico centrista. E questo per una ragione persin troppo semplice da spiegare. E cioè, se non si vuole ridurre questa presenza ad un fatto puramente ornamentale e del tutto ininfluente, quello è il perimetro politico, culturale e valoriale più coerente e lungimirante per poter ancora giocare un ruolo protagonistico e non subalterno o gregario.

Anche perché, va pur detto, non si può continuare a sognare la presenza di un partito laico, popolare e di ispirazione cristiana, in grado di rappresentare in modo significativo i cattolici italiani, quando mancano, purtroppo e chissà per quanto tempo ancora, i più elementari presupposti politici ed organizzativi. Ma nella costruzione di un Centro dinamico, innovativo, democratico, riformista e di governo, parte dei Popolari possono ritrovare le ragioni per un rinnovato protagonismo politico, culturale e programmatico dei cattolici italiani.