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Letizia a Milano sognando il Centro che verrà

L’incontro che si è svolto a Milano nei giorni scorsi con mondi, gruppi, associazioni e partiti di orientamento centrista è una buona notizia per tutti coloro che non si rassegnano ad una progressiva e sempre più smodata radicalizzazione della lotta politica e polarizzazione ideologica nel nostro paese. Un progetto, quello centrista, che da troppo tempo viene evocato da più pulpiti e che, purtroppo, stenta ancora a decollare in modo compiuto. Per svariate motivazioni. Ma dopo la vittoria elettorale e il consolidamento della destra identitaria e di governo e l’affermazione di una sinistra sempre più massimalista, radicale ed estremista, è giocoforza anche il ritorno del Centro. O meglio, di una ‘politica di centro’. Dando voce ad un elettorato che, o si rifugia nell’astensionismo o vota, seppur stancamente, la coalizione di centro destra.

Ora, però, questo progetto – anche e soprattutto in vista delle ormai prossime elezioni europee – deve articolarsi lungo 3 direttrici di fondo se vuole realmente uscire allo scoperto e decollare.

Innanzitutto deve essere un progetto che non si limita a creare un cartello elettorale ma, al contrario, a costruire una iniziativa che punta progressivamente a trasformare questa domanda politica, culturale, sociale e quindi programmatica in un vero e proprio partito. Certamente plurale al suo interno ma, comunque sia, un partito organizzato. E questo per la semplice motivazione che la ‘politica di centro’ nel nostro paese non si può ridurre ad una mera operazione elettorale ma richiede, al contrario, una progettualità politica complessiva e a lungo termine.

In secondo luogo, e strettamente legata a questa prima indicazione, è necessario una qualificata e autorevole “regia” politica per favorire e far crescere questo percorso. Ed esponenti come Beppe Fioroni, Matteo Renzi, Letizia Moratti e molti altri possono svolgere questo ruolo delicato per evitare di deragliare inseguendo l’improvvisazione inconcludente, il pressappochismo organizzativo o la debolezza politica e progettuale. Una “regia” che, soprattutto, sia in grado di incanalare il ricco e variegato pluralismo che caratterizza quest’area e che va ricondotto ad unità, seppur nel rispetto di tutte le sensibilità ideali e territoriali.

In ultimo, ma non per ordine di importanza, il progetto politico deve essere chiaro e percepibile dai cittadini/elettori. Non un luogo cerchiobottista, vagamente trasformista ed ondivago. No, si tratta invece di costruire e di dar voce ad un progetto politico e di governo distinto e distante da ogni forma di massimalismo estremista e di un populismo anti politico e qualunquista. Del resto, un progetto è chiaro e realistico se è in grado di rappresentare un segmento sociale e di tradurre quelle domande e quelle istanze in una chiara iniziativa politica e legislativa. Al riguardo, è quantomai necessario che questo progetto sia animato e accompagnato da una cultura politica. Che non può essere, come ovvio, solo quella di matrice cattolico popolare e sociale. Anche questa, come ovvio, accanto però ad altre culture riformiste e democratiche. 

Quello che serve è che ci sia un respiro ideale e culturale forte e convincente nel dispiegare un progetto politico centrista, democratico, riformista e di governo. E l’iniziativa che si è svolta nei giorni scorsi a Milano può centrare questo obiettivo solo se si rispettano sino in fondo anche queste tre indicazioni di marcia.

La Rai preda dei partiti evoca la fine della prima repubblica

Avviso ai “lottizzatori” di queste ore. L’occupazione delle caselle televisive raramente porta un grande beneficio a quanti si prodigano nell’impresa. La Rai dei partiti di una volta non arrecò fortuna alla prima repubblica. E l’editto bulgaro di Berlusconi non arrise al suo governo di allora. 

È quasi sempre un’illusione l’idea che nominando i propri cari se ne abbia in cambio una messe di voti. Tanto più ai nostri giorni. Ora, sia chiaro, il sottoscritto può sdegnarsi ma non troppo per le nomine di questi giorni. Sono stato a suo tempo consigliere di amministrazione della Rai per conto della Dc, e dunque so che mi è precluso il pulpito da cui rivolgere prediche troppo severe ai miei “successori”. Anche se nel frattempo la morsa della lottizzazione si è fatta ben più serrata di allora, e dunque forse noi predecessori avremmo diritto a qualche indulgenza in più. 

Sta di fatto che la televisione di oggi è assai meno influente di allora. I social hanno occupato una parte sempre più larga del discorso pubblico nel bene e nel male. E i telespettatori si sono abituati a farsi da sé il proprio palin- sesto. 

C’è insomma un’attitudine più disincantata che rende assai meno influenti i messaggi telepolitici. Sia quelli ufficiali dei telegiornali, sia quelli più subliminali delle grandi fiction e delle trasmissioni più spettacolari. Dunque verrebbe da consigliare ai nuovi potenti del ramo di usare modi più felpati di trattare l’argomento. Senza fidarsi troppo dell’efficacia delle cure che i loro cari pensano di dedicare ai telespettatori. I quali ormai sono così smagati da decidere a modo loro.

Fonte: La Voce del Popolo – 31 maggio 2023

Titolo originario: Avviso ai “lottizzatori”: servono modi più felpati.

[Articolo qui riproposto per gentile concessione del direttore del settimanale diocesano di Brescia].

La corsa alle elezioni anticipate in una Spagna segnata dalla radicalizzazione politica

La durissima sconfitta elettorale patita dalla Sinistra spagnola nel turno amministrativo del 28 maggio (nelle grandi città e in molte regioni del Paese) non è il frutto di una qual certa insoddisfazione dell’elettorato per i non brillanti risultati economici conseguiti dal governo di Pedro Sanchez. Che non sono affatto negativi: il PIL in questi anni è cresciuto e la disoccupazione è diminuita. Nulla di clamoroso, si intende, ma obiettivamente è difficile esprimere un giudizio rigorosamente negativo della politica economica attuata dalla Moncloa. Anzi, se si considera il fatto che l’esecutivo si regge sin dal 2019 sull’appoggio esterno di forze regionaliste (ancorché schierate a sinistra) basche e catalane e che di recente ha patito pure un’ulteriore scissione di Podemos, il partito alleato del PSOE di Sanchez, bisogna riconoscere a quest’ultimo una buona capacità di navigazione parlamentare per ottenere i voti necessari a procedere con le sue scelte. E ora la sua mossa a sorpresa, ovvero la convocazione anticipata dei comizi elettorali di metà luglio ne dimostra la lucida freddezza: solo drammatizzando la situazione Sanchez può sperare di far tornare alle urne i molti elettori di sinistra che domenica scorsa le hanno disertate. E che peraltro potrebbero non bastare, perché la sconfitta del 28-M (come è uso scrivere in Spagna) ha almeno due motivazioni di quelle assai serie per chi le subisce, in questo caso la Sinistra.

La prima è di natura politica: si è concluso un ciclo, iniziato oltre dieci anni fa con la protesta de “los indignados”, avviata alla Puerta del Sol di Madrid, al km zero da dove si irradiano le strade di Spagna, dai giovani che inaugurarono quella stagione e che qualche tempo dopo, sotto la guida di uno di loro, Pablo Iglesias, fondarono Podemos. Un movimento dal successo immediato, ma destinato a rivelarsi effimero nel tempo (qui in Italia vi fu chi prontamente tentò di imitarlo, senza successo, nemmeno effimero) in quanto radicato sulla protesta e non sulla proposta. Non solo: il movimento presto si fece partito e pur conseguendo discreti risultati elettorali si avviò su una strada che lo condusse a perdere ogni carattere di novità, ogni freschezza. Divenne lo strumento personale di Iglesias e ancor più della ambiziosissima sua fidanzata Irene Montero (oggi ministra nel governo Sanchez), un centro di potere che condusse lo stesso Iglesias alla vicepresidenza del Governo, ma pure ad una prima spaccatura nel partito operata ai danni di uno dei suoi co-fondatori, Inigo Errejòn. 

Parliamo dell’ideatore della narrazione dicotomica “popolo-casta” che aveva emozionato molti spagnoli, specie giovani, illudendoli sulla possibilità di “cambiare” davvero la società, come spesso accade all’avvento di una nuova classe politica che si vuole davvero popolare in quanto nata nelle piazze e con esse desiderosa di rimanere unita, portandole anzi dentro la cittadella del potere. Sino al tentativo del leader di essere eletto alla presidenza della Comunità di Madrid, nel 2021, fallito e seguito dalle sue dimissioni dal governo e dal ritiro (temporaneo?) dalla politica. Ma la parabola discendente avrebbe dovuto vedere anche un’ulteriore spaccatura, con la nascita da una costola di Podemos (o meglio di Unidos Podemos, coalizione di estrema sinistra poi rinominata Unidas Podemos, rigorosamente al femminile) del nuovo movimento Sumar, che ora vuol farsi partito, col risultato che entrambe le sigle stanno correndo il rischio di consegnarsi all’irrilevanza. Insomma, il solito frazionismo a sinistra che conosciamo bene anche qui in Italia.

Ora Sanchez deve in un paio di settimane al massimo favorire una loro riunione in vista delle elezioni di luglio. Lo spettro che agiterà sarà un governo del Partido Popular e dell’estrema destra di Vox, partito nato pochi anni fa da una scissione a destra dello stesso PP, già di per sé un partito assai meno moderato dei Popolari europei aderenti al PPE. 

La seconda motivazione della sconfitta della Sinistra è d’ordine per così dire culturale: sono sempre di più gli spagnoli che non condividono e spesso aborrono la linea radicalmente laicista dell’esecutivo di Sanchez, che ha ripreso e sviluppato – sotto l’impulso imperioso di Podemos e in particolare della sua componente “femminista” – la spinta sui “diritti individuali” che già fu del governo socialista di Zapatero negli anni zero del nuovo secolo. In particolare ha generato forti dissensi la “Ley trans”, che consente di autodeterminare la propria identità di genere a partire dai 16 anni di età senza alcun certificato/consenso di alcun tipo; e così pure la legge sul diritto all’eutanasia.

Questa radicalizzazione generalizzata a sinistra ha comportato una simmetrica radicalizzazione a destra: i Popolari, subendo la concorrenza del nuovo partito di destra Vox, hanno dunque a loro volta radicalizzato il proprio profilo; tentativo analogo ha fatto Ciudadanos, il partito di Centro che ai suoi albori aveva ottenuto buoni risultati, ma che poi ha virato verso destra, anch’esso succube del radicalismo imperante, col risultato di perdere i suoi elettori, tornati alla “casa madre” popolare.

Ora la campagna elettorale sarà breve ma durissima, con i due fronti armati l’un contro l’altro all’insegna di parole d’ordine definitive, escludenti, probabilmente offensive: la partita, nonostante il risultato delle amministrative, è aperta. All’insegna dello scontro, totale. Una domanda sorge: ma è un bene per la Spagna?

Le regole realizzano e custodiscono i valori a beneficio della libertà

Come diceva Georges Bernanos “non siamo noi che custodiamo le regole ma sono le regole che custodiscono noi”. Dimentichiamo spesso – infatti – che il rispetto delle buone regole non costituisce solo un vincolo, magari fastidioso, a cui non possiamo sottrarci perché prevede obblighi e sanzioni ma anche una preziosa risorsa per essere gratificati da  protezioni individuali e certezze sociali.

In un contesto esistenziale dove prevalgono la fragilità interiore e lo sbandamento emotivo ci accorgiamo quanto sia rassicurante poter contare sulla socializzazione dei valori.

Le tradizioni, le consuetudini, le istituzioni in cui la società si riconosce sono involucri che contengono la sedimentazione del pensiero e delle azioni, quello che resta dei vissuti, il deposito delle esperienze, la convenzione condivisa dei comportamenti che ci permette sia di vivere in una rete di relazioni che hanno un significato, in cui possiamo identificarci, sia di scambiarci messaggi reciprocamente comprensibili. Il frettoloso elogio del cambiamento fine a sé stesso, oggi tante volte ricorrente nelle aspettative sociali e nelle aspirazioni individuali, ma spesso imperativo categorico della globalizzazione e metafora perdente della progettualità, non può privarci della ineguagliabile, rassicurante condizione mentale di stabilità che ci deriva dalla certezza di possedere i punti di riferimento che ci siamo dati.

La vita è una continua ricerca di situazioni di equilibrio e il progresso consiste nel fare un passo avanti avendo ben presente da dove si arriva. In una società attraversata da tensioni e spinte contrapposte, dove trionfa il relativo dei singoli punti di osservazione e di interesse, è invece importante sapere che ci sono diritti e doveri da rispettare, norme e principi da non infrangere, tutele per tutti, specie per i più deboli e indifesi. Alla definizione delle regole risulta perciò determinante l’apporto dato dalla scelta dei valori che le sostengono, affinché siano comprensibili, eque, giuste, condivisibili e sostenibili.

Le regole stabilite da una dittatura violano i principi di libertà e democrazia, si tratta quindi di norme che più che suggerite sono imposte, più che accettate sono subite.

In una società fondata sull’odio razziale, sulla xenofobia, la regola della discriminazione nega il valore dell’uguaglianza: le norme si uniformano a consuetudini sbagliate e allora più che rispettate vanno combattute per essere cambiate. Ma anche in un contesto dove i valori trovano solo formale ossequio e retorica ostentazione, dove il trionfalismo della parola nasconde invece insidie, ingiustizie e sofferenze viene messa in mostra solo la parte più teorica e superficiale dei riferimenti ideali.

I valori costituiscono la parte migliore della nostra tradizione culturale, l’espressione materializzata delle scelte morali di una società, il punto di approdo di una civiltà che possa definirsi tale: sono le radici che ci legano alla nostra storia affinché si faccia tesoro del passato per costruire un mondo migliore. Solo se sono sostenute da valori condivisi ed eticamente ispirati le norme del vivere sociale ci aiutano a darci degli ordinamenti dove le regole custodiscono e proteggono la nostra libertà. Attingendo a piene mani dalla tradizione, riceviamo insegnamenti di vita quanto mai preziosi per il presente e il futuro. Occorre avere i piedi ben piantati prima di spiccare il volo. 

Persona e società nella cultura dei cattolici democratici e popolari

Il test elettorale di fine maggio ha riconfermato una tendenza generale ormai nettamente delineata: la delusione generata dal populismo, che sfocia in un’astensione di circa la metà del corpo elettorale, e la polarizzazione destra-sinistra, che premia largamente la destra. Sono questi due trend che condizionano inevitabilmente il dibattito sul centro e sul ruolo dei Popolari per delle politiche di centro, riformiste soprattutto nel senso di risultare all’altezza delle sfide del cambio di epoca in corso.

In un tale contesto l’iniziativa dei Popolari deve partire dal presupposto che per poter esprimere una politica bisogna innanzitutto esserci. A tal fine l’attenzione crescente che nell’arcipelago del cattolicesimo democratico e sociale viene riservata alle idee e agli strumenti che permettono loro di essere veicolate, appare centrale. Si tratta innanzitutto di evidenziare i tratti di una cultura politica, quella ispirata al popolarismo, di definire una visione della società, della persona umana, del futuro, che scaturisce da questa peculiare prospettiva.

Nel contempo servono gli strumenti, le occasioni i luoghi per alimentare il dibattito che definisce la proposta di questa area culturale e politica. Uno di questi strumenti è sicuramente il giornale on line “Il Domani d’Italia”. Fondamentale è anche una rete organizzativa il più possibile capillare, e allo stesso tempo capace di ritrovarsi coesa sulle questioni qualificanti. Se il processo di riaggregazione dei Popolari prosegue in questo modo, oltre la frammentazione e i personalismi che si sono visti per anni, apparirà chiaro a tutti che quella popolare è una delle componenti irrinunciabili all’area di centro, e che come tale va riconosciuta.

Anche perché la nuova sintesi che molti auspicano, fra una sinistra democratica e riformista e un centro popolare e plurale, appare tutt’altro che semplice da realizzare mentre non si può escludere che una parte dell’attuale Pd possa avvicinarsi al centro. I margini di manovra appaiono stretti. Da un lato la sinistra attuale non pare affatto intenzionata discostarsi da un percorso che sembra aver mutuato da altri, facendo proprie discutibili campagne di stampa, martellanti e a senso unico, come quelle in favore della propaganda gender, del fondamentalismo green che lungi dall’esprimere una autentica coscienza ecologica integrale, non di rado usa l’ambiente come pretesto per politiche malthusiane e pauperiste sulle classi più deboli, sui loro beni e sui loro diritti; per una digitalizzazione che prescinde dall’umanesimo.

Dall’altro lato, gran parte della classe media, bersaglio della politica di una sinistra, radicale ma nel difendere gli interessi dei più forti, risulta molto esigente e non tollera ambiguità. Se da parte del centro non c’è chiarezza rispetto alle suddette derive, il loro voto è già perso in partenza, e la gran parte dei ceti medi e popolari si vede costretta, per mancanza di offerta politica adeguata, a optare per l’astensione o per la destra.

Ecco, dunque, l’importanza di una riaggregazione dei Popolari in funzione di un centro capace di affrontare con equilibrio e creatività le sfide che ci pone il nostro tempo.

Solo con un progetto solido per la nostra epoca, solido come quelli che i cattolici democratici seppero definire in epoche passate, un centro plurale e popolare appare in grado di poter proporsi all’attenzione di un elettorato sfiduciato ma molto meno disorientato e sprovveduto di quanto possa sembrare.

L’Eco di Bergamo | Chi era veramente Don Milani. Intervista a Mauro Ceruti.

Di seguito riportiamo la parte finale dell’intervista a Mauro Ceruti, filosofo e senatore della Repubblica nella XVI legislatura, pubblicata su «L’Eco di Bergamo» (28 maggio 2023) con il titolo: «Per lui la fede esigeva libertà. Ma non è mai stato un sessantottino». Si ringrazia Mauro Ceruti per aver acconsentito alla parziale riproduzione del suo colloquio con Carlo Dignola, caposervizio del quotidiano bergamasco.

 

(…)

Carlo Dignola

Un uomo diretto, persino duro a volte. 

 

«Indubbiamente don Lorenzo Milani è una spina nel fianco alla tendenza della Chiesa a fare di sé una sorta di lenitivo della disuguaglianza sociale, tradendo l’immaginazione evangelica che invita a concepire un mondo nuovo e un uomo nuovo. Questo però non si tradusse mai in una critica ideologica o in una tendenza a uscire dalla Chiesa, come accadde per molti in quel periodo post-conciliare. Don Milani non si è mai sentito ai margini della Chiesa, mai. E ha sempre riconosciuto la Chiesa come Sacramento di Cristo. 

 

In lui convivevano, anzi erano la stessa cosa il radicalismo evangelico e il riconoscimento del carattere sacramentale della Chiesa. È davvero una sorta di lama d’acciaio che entra in modo netto nella sua Chiesa ancor più che nella società. Però non è un fulmine a ciel sereno. È anche espressione del cattolicesimo fiorentino di quegli anni, ci sono senz’altro tre uomini che hanno avuto un’influenza decisiva su di lui. 

 

Il primo è il suo vescovo di Firenze, cardinale Elia Dalla Costa, grande elettore di Papa Giovanni: per don Lorenzo è stato maestro di una fede sottratta a qualsiasi servizio ai poteri mondani. Il secondo è don Giulio Facibeni, il fondatore dell’Orfanotrofio della Madonnina del Grappa: un’opera che non volle far dipendere dall’istituzione Chiesa, era finanziata dalle libere oblazioni degli operai. La aprì nel quartiere operaio di Firenze dove tutti erano comunisti, per essere un ponte fra ciò che invece allora era divisivo. Il terzo uomo importante per don Lorenzo fu Giorgio La Pira, siciliano di nascita ma sindaco di Firenze e poi, anch’egli, esempio concreto di “uomo del Vangelo”: viveva come un povero in una cella del convento dei Domenicani in San Marco. Don Lorenzo è cresciuto in questo humus». 

 

Prete «di base». 

 

«Le sue sono sempre esperienze concrete e paradigmatiche: la prima è quella, come coadiutore, a San Donato di Calenzano, vicino a Firenze. Lì fa l’esperienza di una Chiesa “che ha tutte le parole, tranne quelle necessarie”. Una Chiesa che non sa parlare ai suoi parrocchiani che stanno vivendo il trauma del passaggio dalla società contadina a quella operaia. Don Milani non fa ciò che facevano gli altri parroci nelle sue condizioni, costruire oratori moderni, campi sportivi, sale cinematografiche con l’idea di portare lì i ragazzi per tenerli lontani della tentazione della secolarizzazione, della “tentazione comunista”. Ma viene spiato dai suoi stessi parrocchiani, e calunniato. Subisce una emarginazione totale, inviato nel confino mortifero di Barbiana, sperduta frazione montana nel Mugello».

 

Praticamente in missione in un «Terzo mondo»… 

 

«Che però è diventato uno specchio autentico, la coscienza critica per il Primo mondo. Lì don Lorenzo non fa professione di vittimismo, ma trova l’opportunità più creativa per dare espressione alla sua personalità e alla sua vocazione. A Barbiana la fede si trasforma nella passione per un’educazione alla libertà che vuol essere il contrario del proselitismo. Vuol portare quei bambini esclusi a ragionare con la propria testa, e quindi a raggiungere una libertà interiore, condizione di autentica emancipazione sociale. 

 

La scuola per don Lorenzo non è un ascensore sociale per integrarsi in un modello che discrimina, ma libertà di pensiero, libertà interiore. L’evangelizzazione e l’educazione alla libertà sono per lui una stessa cosa. Portare l’uomo a essere libero, dice don Lorenzo, è già un evento evangelico anche se io il nome di Cristo non lo pronuncio. Per questo non riteneva necessario tenere il crocifisso nella sua scuola. Era sufficiente che il riferimento ai simboli cristiani fosse nelle liturgie. In questa luce vanno letti i due scritti più noti e più scandalosi della sua esperienza pastorale, la “Lettera ai cappellani militari: l’obbedienza non è più una virtù” e la “Lettera a una professoressa”. 

 

Don Milani legge sul giornale che alcuni cappellani militari sostengono che un buon cattolico deve condannare l’obiezione di coscienza perché è una disobbedienza alle leggi dello Stato. Non solo nella società ma soprattutto nella Chiesa da sempre la parola “obbedienza” è una parola importante. Nella libera discussione con i ragazzi di Barbiana viene invece messa in discussione l’obbedienza all’autorità, e posta in primo piano l’obbedienza alla coscienza, libera. Verrà denunciato per vilipendio, per apologia di reato: sarà prima assolto e poi condannato dopo la sua morte. 

 

La “Lettera a una professoressa” nasce invece dalla bocciatura all’esame di licenza media di Gianni, un ragazzo di famiglia povera. I dialoghi con i ragazzi fanno emergere la differenza fra lui e Pierino, il primo della classe, figlio di una famiglia colta: questo sa svolgere benissimo il tema proposto, come la professoressa vuole che sia svolto, Gianni invece non è in grado: la scuola è un perfetto momento di selezione sociale. La “Lettera a una professoressa” è il testamento spirituale di don Lorenzo, cristiano e prete, non un testamento filosofico, politico o culturale – anche se poi ha ispirato tanta riflessione di tipo pedagogico. 

 

Don Milani non avrebbe mai immaginato o pensato di riformare la scuola istituzione secondo il modello della sua Barbiana. Quella può essere un’ispirazione, ma è un’esperienza che coincide con la sua personalità. Né avrebbe mai voluto identificare la sua con le scuole cattoliche. Pensa a una cultura non confessionale proprio perché l’evento più profondamente evangelico è l’evento di una crescita della libertà interiore. Don Milani è un prete che vive nel suo tempo e che ha una coscienza critica, ma non ha nessuna intenzione direttamente politica – anche se ne ha, certo, indirettamente. In questi decenni si sono visti tanti tentativi di appropriarsi del “vero don Milani”, ma incontrarlo è possibile solo nell’esperienza di vita singolare assoluta di quest’uomo di fede limpida, irripetibile, proprio perché l’orizzonte del suo impegno pedagogico è la creazione di condizioni sociali ed educative che promuovano la libertà».

Gualtieri e l’assessore Patanè sconfitti sulla circolazione dei mezzi d’epoca

Passo fondamentale sulla questione della circolazione dei veicoli storici all’interno della ztl e della fascia verde imposte dal Sindaco di Roma Gualtieri e dall’Assessore alla mobilità Patanè. Alla fine l’ordinanza contro i mezzi d’epoca, quei cosiddetti “rottami”, come sono stati definiti dalla giunta capitolina, trova il parere negativo del Consiglio di Stato che, come già segnalato da molti negli ultimi giorni, dati alla mano, sottolinea “che l’impatto emissivo dei veicoli storici, soprattutto in considerazione del loro limitato utilizzo nel tempo, è da ritenersi scarsamente apprezzabile, sia in termini assoluti che relativi, in rapporto alle componenti inquinanti prodotte dai restanti mezzi circolanti”. 

Dati evidentemente non noti all’Assessorato competente che in maniera del tutto evidente non si è dimostrato all’altezza di condurre questa sorta di battaglia di Pirro, peraltro ignorando la ricaduta di tale scelta in termini sociali ed economici. Per fare qualche esempio, ormai noto a tutti, i tesserati dei club auto e moto che avrebbero rischiato di perdere da un anno all’altro ASI e FMI (si parla di qualche milione di euro l’anno), il danno alle piccole imprese di settore: officine specializzate, meccanici, negozi di nicchia. Infine, è forse ancor più grave, non è stato tenuto conto che molte persone, tra cui magari diversi anziani o soggetti in difficoltà, le possibilità per rispettare l’ordinanza non le hanno e non le avranno mai.

Tutto da rifare in pratica, magari con un minimo di lungimiranza e sensibilità in più, anche a tutela di un Sindaco che si trova ad amministrare una città già complessa per sua natura, e non ha certo bisogno di ulteriori problemi. Con il pronunciamento del Consiglio di Stato al Comune restano poche possibilità: modificare immediatamente l’ordinanza o perdere con certezza davanti al TAR ed elaborare una nuova delibera ad hoc per questa tipologia di veicoli. 

Senza addentrarsi troppo nel merito della tematica, che può interessare o meno, questo episodio rappresenta dal un lato una gestione che potrebbe ulteriormente forzare la fragilità del Sindaco, e dall’altro aprire qualche ragionamento su chi è stato scelto per occuparsi delle vicende, anche più serie, della nostra città.

Ancora suggestivo il discorso di De Gasperi sulla fatica della democrazia.

[…]

Volendo utilizzare due espressioni riassuntive, e necessariamente semplificatorie, si potrebbe allora  descrivere il periodo degasperiano come un’epoca di mediazione, mentre quella attuale come un’epoca di disintermediazione: la prima prevede un connubio tra  mediazione e leadership che trova un’incarnazione proprio nella figura del leader democristiano – si pensi alla  propensione a creare maggioranze «eccedenti» in Parlamento – e un’organizzazione della vita politica che valorizza i corpi intermedi, in particolare i partiti politici (soprattutto con l’intento di sensibilizzare i cittadini alla  partecipazione democratica); la seconda stagione – che  circoscrive la vita politica degli ultimi decenni – è caratterizzata, al contrario, da una profonda crisi della rappresentanza politica, strettamente legata all’indebolimento della funzione di mediazione dei partiti e, per molti versi, al presunto azzeramento della distanza tra eletti ed elettori, che diventerebbe possibile grazie alle   tecnologie informatiche. In particolare, il rapporto di immediatezza che si è instaurato tra leadere e «popolo»  (Urbinati,  2020),  ha  determinato  la  restrizione  di  quella  distanza democratica nella quale operano i corpi intermedi, che però rappresenta la ragione costitutiva di un sistema  rappresentativo (Campati, 2022).

Giungere alla conclusione secondo cui, nel volgere delle  stagioni politiche di una democrazia parlamentare come quella italiana, possono succedersi momenti nei quali il decisionismo e l’immediatezza sembrano soverchiare le pratiche della mediazione, altri nei quali si verifica l’esatto contrario, e altri ancora nei quali mediazione e immediatezza sono in equilibrio, può sembrare riduttivo. Forse lo è molto meno, se si ricorda che tutti questi scenari possono verificarsi  all’interno  di  un  contesto  istituzionale formalmente immutato. Tale aspetto evidenzia come il sistema istituzionale italiano (e non solo) sia caratterizzato  da elementi di flessibilità che spesso non vengono presi nella giusta considerazione e proprio tale mancanza è alla  base di conclusioni troppo affrettate quando si considera esaurito il ruolo di una leadership, oppure quando si decreta l’indebolimento dell’influsso di talune ideologie o persino quando si ipotizza la conclusione dell’operatività di alcune formazioni politiche.

L’intento al fondo del presente articolo è stato quello di ricordare come la democrazia rappresentativa si presenti  sotto le forme di un sistema altamente complesso, nel   quale operano leader e classi politiche diverse, che  possono orientarla in un modo o in un altro attraverso l’uso che fanno degli ingranaggi che la regolano. Proprio grazie a tale complessità (Innerarity, 2022), cioè all’insieme di equilibri (flessibili) che ne governano il funzionamento, essa riesce a garantire pluralismo, libertà e tutela dei diritti. D’altronde, ce lo ricorda lo stesso De Gasperi nella citazione posta in esergo a queste pagine: la democrazia è tutt’altro che semplice, ma è il sistema «meno peggio» che possa toccare al mondo.

Frase di De Gasperi in esergo

«Questo metodo democratico, che pure è il migliore che il consorzio umano abbia inventato, è tuttaltro che semplice. Continui discorsi, continue agitazioni, una Camera, due Camere, elezioni sopra elezioni, quanta fatica! Io non parlo male di questo sistema, perché abbiamo avuto tali esperienze nel passato per concludere che è il meno peggio che può toccare al mondo»

Titolo originale dell’articolo

Un metodo tutt’altro che semplice. Democrazia e mediazione nella riflessione di Alcide De Gasperi.

Link per leggere la rivista

http://www.poweranddemocracy.it

Diamo nuova spazio al protagonismo dei cattolici popolari e democratici.

C’è un filo rosso che lega i cattolici democratici e popolari, l’area Tempi Nuovi, il blog ‘Il Domani d’Italia’ e la prospettiva per ricostruire un Centro dinamico, riformista, democratico e di governo. E il filo rosso lo si potrebbe riassumere con 6 parole: un rinnovato protagonismo politico dei Popolari. Perché di questo alla fine si tratta. In discussione, infatti, non c’è la fretta di dar vita a sigle e movimenti sterili, irrilevanti ed insignificanti come ormai siamo tristemente abituati da troppi anni. Nè, d’altro canto, si tratta di disegnare scenari prendendo atto a priori della nostra impotenza politica e progettuale.

No, molto più semplicemente la posta in gioco è, adesso, quanto mai chiara. E cioè, rilanciare e riattualizzare la cultura, il ruolo e la mission dei cattolici democratici, popolari e sociali per un nuovo progetto politico. Il tutto attorno ad un organo che, da tempo, si caratterizza per un profilo di elaborazione politica, culturale, sociale ed economica: ‘Il Domani d’Italia’.

Senza arroganza intellettuale – che storicamente non ci appartiene – e senza alcuna presunzione di esclusivismo, in gioco c’è però volontà di uscire da una situazione di emarginazione e di sudditanza culturale che da troppo tempo accompagna ormai la presenza e il ruolo dei cattolici popolari impegnati in politica e nel dibattito pubblico più in generale. Certo, siamo perfettamente consapevoli che la sfida è difficile ed impegnativa. Ma siamo altresì convinti che solo attraverso il ritorno alle origini della nostra esperienza storica sarà possibile ritagliare un rinnovato ruolo per dare un contributo originale e significativo al rinnovamento e al cambiamento della politica italiana.

La stagione della testimonianza sterile e sostanzialmente insignificante all’interno di partiti ostili o che perseguono un altro progetto politico e culturale – come ad esempio il Pd a guida Schlein – o a titolo personale in altri soggetti politici, sono ormai alle nostre spalle. Non passa attraverso quella strada nè una ricomposizione dell’area cattolico popolare e sociale e nè, tantomeno, una spinta a ridisegnare gli equilibri politici nel nostro paese. Ma questo nuovo ruolo può arrivare solo da una ripresa dell’iniziativa politica con la finalità di ritornare protagonisti attorno ad un progetto, ad una proposta e ad una visione di società. Insomma, detto in altre parole, in gioco c’è la coerenza e la fedeltà ad una tradizione. Storica, politica, culturale e sociale. E questo, come nella migliore tradizione democratico cristiana e cattolico popolare, non può che avvenire attorno ad una rivista.

E il ‘Domani d’Italia’ risponde a questo requisito. Come, nel passato recente e meno recente, lo sono state riviste e organi di informazione che hanno contribuito a formare le classi dirigenti della tradizione cattolico democratico e popolare. Perchè forse è giunto il momento di dirlo ad alta voce e senza ulteriori tentennamenti: è finita, cioè, la stagione dei “cattolici indipendenti di sinistra” da un lato e la deriva “gentiloniana” nel rapporto con la politica dall’altro.

Si apre, dunque, una nuova stagione anche per la nostra cultura politica. E dobbiamo essere all’altezza della situazione. Su un triplice versante: su quello dell’elaborazione politica e culturale; sulla chiarezza della prospettiva politica e anche, e soprattutto, nella dimensione organizzativa e territoriale. Seguendo sino in fondo il monito di Pietro Scoppola di saper legare in un disegno armonioso e fecondo “la cultura del comportamento con la cultura del progetto”.

Le elezioni amministrative rivelano la fragilità della politica di Elly Schlein

La vera e propria batosta per il centro-sinistra, uscita in modo a dir poco perentorio da questi ultimi ballottagg, deve far riflettere molte persone. A partire dalla Segretaria del Partito Democratico che nei primi commenti a caldo attribuisce ad un (soprannaturale?) “vento di destra” il quasi-cappotto subito.

Sfortunatamente per lei e per noi ancora una volta la realtà, che è notoriamente testarda, evidenzia una distanza enorme tra la narrazione, a cui sembrano credere perfino gli stessi narranti, e la concreta dimensione della quotidianità.

I diversivi, le scuse, le analisi politologiche dei salotti delle ztl, tutto quello che è stato opposto nelle intenzioni e nei fatti con l’obiettivo di evitare l’unica cosa che davvero serviva (e serve), ovvero un reale e profondo ripensamento di una nuova, autentica, intera area politica progressista, deve cessare al più presto.

Tutta le forze di un’area autenticamente progressista, tutte le culture e le tradizioni politiche che la compongono (e quindi anche il cattolicesimo democratico sociale e popolare, che reputo la mia casa) a prescindere dai contenitori passati, presenti o futuri, devono riguadagnare la credibilità necessaria per riappropriarsi del proprio popolo.

Compito improbo? Certo!

Ma ineluttabile se non si vuole continuare a lasciare il Paese in mano ad una destra abilissima ad abbindolare e distrarre l’opinione pubblica, ma molto meno a governare.

Un compito che inizia con le parole, certo, ma soprattutto con prese di posizione nette, comprensibili ed inequivocabili sulle questioni dirimenti riguardanti la politica interna e, soprattutto, di politica estera. Non certo con le incredibili (nel senso letterale del termine) acrobazie lessicali che per ora sembrano essere purtroppo l’unica cifra di Schlein.