Giovedì 19 maggio, nella chiesa di santa Maria in Trastevere, mons. Paglia ha celebrato una messa in suffragio di Giorgio Pasetto. È seguito poi un ricordo di Piero Ambrosi, da sempre uno degli amici più vicini Giorgio. Lui stesso, nell’ circostanza, ha letto il messaggio di Pierluigi Castagnetti, che qui riportiamo integralmente.
La coincidenza di questo nostro incontro con l’ascesa al Cielo di Ciriaco De Mita, il nostro riferimento, anzi il nostro maestro in politica, non è privo di significato. Può essere letto come il suggello su una stagione politica e la sua classe dirigente che ha passato il testimone a una nuova generazione di cattolici democratici, cui la storia chiede di intraprendere un nuovo cammino. Senza rimpianti e nostalgie, senza l’angoscia di una replica, ma con l’intelligenza e il coraggio di immaginare cose nuove, percorsi nuovi, come Papa Francesco chiede alla Chiesa italiana guidata ora dal nostro amico Matteo Zuppi.
Ho partecipato a questa liturgia in comunione spirituale con tutti voi e, in particolare, con Giorgio, non potendo essere presente per un impedimento di salute.
Se fossi stato lì, avrei ricordato a mons. Paglia (ma lo faccio ugualmente con questo scritto), il Natale del 1999, quando venne a celebrare la Messa nella sede del PPI a piazza del Gesù, esattamente nella sala della Direzione Nazionale. L’idea fu di Giorgio.
Essendo lui per me il referente di fiducia su Roma, quando gli chiesi l’indicazione di un convento dove trovarci tutti insieme per una riflessione sul Natale, mi rispose con quella spontaneità e quel sorriso apparentemente ingenuo che tutti conoscevamo: “qui. Facciamo una Messa e una meditazione natalizia qui in sede” e, di fronte alla visibile perplessità che si coglieva sul mio viso , continuò: “che problema c’è?, non s’è mai fatto?, c’è sempre una prima volta, mica dobbiamo mettere i manifesti, è una cosa in famiglia per noi, credenti che fanno politica e che riflettono e pregano insieme”.
Vabbè, allora che prete chiamiamo?. “Don Paglia di S.Egidio, secondo me accetta, perché ne intuisce il senso”, fu la sua risposta.
E così fu, quell’anno e anche il successivo.
Mi ricordai di un precedente paragonabile, quando don Mazzolari celebrò nell’immediato dopoguerra una Messa all’apertura di un seminario cui partecipava la dirigenza nazionale della DC:
“Una messa a introduzione di un convegno politico! Uomini di parte che pregano! Qualcuno sorriderà: altri rimarrà pensoso. Io ne sono commosso: voi pure…Il fatto che uomini di azione politica, dico più esatto, uomini di partito, preghino, non ha nulla di straordinario né di sconveniente per la politica come per la religione. Siamo qui per pregare, non per proporre di far pregare. La preghiera non si comanda: ci si inginocchia e si inginocchia chi vuole…”.
A Giorgio piacevano le cose un po’ innovative. Come quando, qualche anno fa, s’era inventata la rassegna-stampa di articoli di cultura e politica – che non faceva lui, ma considerava sua – per fare circolare idee nuove, aria fresca per gli amici.
Ecco, “gli amici” erano il suo spazio politico.
Da quando non c’erano più Galloni e Rocchi sentiva che questa era la sua missione: tenere insieme gli amici, dividendo e condividendo il pane delle idee nuove, in riunioni e discussioni attorno a tavolate da cui ci si alzava sempre il più tardi possibile, perché si stava bene insieme e perché si portavano a casa sempre pensieri che non si avevano prima.
E, negli anni più recenti, quando la situazione politica nazionale si faceva complicata, passava in ufficio a salutare con il suo sorriso illuminato e illuminante e il solito interrogativo: “che succede?”.
“Che succede?”, negli ultimi anni era diventato il suo incipit: la curiosità di capire come si evolve la situazione, adesso che non ci sono più i grandi registi come Moro, e neppure i partiti. Avvertiva e soffriva la precarietà della situazione. “Che gliè dico ai miei?”, una domanda che gli ho sentito non so quante volte. Voleva capire per poter aiutare gli altri a capire.
Perché Giorgio apparteneva a quella generazione di politici che pensavano sempre agli altri. Cresciuti così sin da piccoli e da giovani, in mezzo agli altri, a servizio degli altri.
Il popolo di Anzio e quello di Centocelle erano la sua gente.
Gli piaceva l’odore del mare e dei pescatori, ma anche quello della gente di borgata.
Ma soprattutto c’erano quegli amici che lo avevano sempre aiutato nelle campagne elettorali ecio che lui, a sua volta, cercava di aiutare nelle loro aspirazioni, sempre inappagato di quello che riusciva a fare, perché si sentiva stretto e pressato da chi, nel suo stesso partito, operava in modo disinvolto per non dire di peggio.
Lui era rimasto il ragazzo di sempre, che faceva politica per passione e con intelligenza. Era dotato di una straordinaria capacità di conoscere le situazioni, di interpretarle, di intuirne gli sbocchi e le conseguenze, quella che io chiamo “intelligenza della storia”: cioè capire ciò che accadrà.
Era dotato di una raffinata capacità amministrativa, sedimentata nelle sue esperienze di sindaco e presidente della Regione. Sapeva scegliere. Sapeva decidere. Sapeva costruire. Sapeva cucire. Sapeva coinvolgere. Insomma, sapeva “fare”.
Ma, nondimeno, gli piaceva quella che un tempo si chiamava la “politica pura”, cioè la grande politica, la visione, la strategia.
Se n’è andato, lasciando un grande vuoto nella sua famiglia, in Enza e Francesco.
Ma, in altro modo, anche noi eravamo la sua famiglia e, anche noi sentiamo oggi un vuoto che è colmato solo in parte dal ricordo di quanto in tanti anni ci ha dato.