Sulla riapertura delle Chiese e soprattutto la celebrazione della Messa, in Italia si è aperto un dibattito che, come capita alcune volte, rischia di scivolare negli “opposti estremismi”. Certo, mai la Chiesa italiana aveva dovuto affrontare un’emergenza del genere. Ed è, pertanto, del tutto naturale che ci siano delle incomprensioni e delle difficoltà nell’affrontare, e risolvere, un problema che supera e che va al di là di qualsiasi protocollo burocratico e regolamentare.

Detto questo, però, almeno due anomalie non possiamo non evidenziarle. Da un lato lo strano e singolare abbinamento della Chiesa e dell’esercizio della messa domenicale e quotidiana con un qualsiasi esercizio commerciale. E lo dico con tutto il rispetto dovuto, come ovvio e scontato per l’esercizio commerciale o per la sala da gioco. Una scivolata, forse dettata dalla fretta e dalla confusione che caratterizzano questi giorni frenetici che, però, ha rischiato di far deragliare l’intera questione. Dall’altro, e nel pieno rispetto della dura e del tutto legittima, nonchè comprensibile, posizione espressa dal vertice della Cei, abbiamo anche assistito ad un clericalismo di ritorno di chi si fa ancor più interprete e custode di ciò che dicono i Pastori. È appena sufficiente leggere i commenti su alcuni grandi organi di informazione per rendersene conto. Sono quelle figure che nelle diverse fasi storiche hanno alimentato e attraversato il movimento politico e culturale dei cattolici italiani. Carlo Donat-Cattin li chiamava negli anni ‘80 i “sepolcri imbiancati” e Mino Martinazzoli, con altrettanta ilarità, li definitiva semplicemente “i cattolici professionisti”. Verrebbe da dire, seppur senza enfasi, nulla di nuovo sotto il sole.

Per fortuna, però, esiste ancora la categoria della “mediazione”. Anche nell’area cattolica italiana, curiale e non. E ne è testimone, oggi, una significativa ed importante intervista apparsa su “Repubblica” del vescovo della mia città, Pinerolo, mons. Derio Olivero. Un vescovo colpito dalla tremenda malattia contemporanea e che ne è uscito recentemente guarito. Un messaggio, quello del vescovo piemontese, ispirato dalla prudenza e dal rispetto rigoroso nelle norme e delle regole in materia sanitaria e di contenimento della malattia da un lato, ma dettata anche da una profonda ed intensa spiritualità da praticare quotidianamente. Nella messa domenicale sicuramente, ma anche nella preghiera di tutti i giorni, nel rapporto con Dio e anche nella riscoperta della fede da parte di tante persone che devono forzatamente convivere con questa situazione di isolamento sociale ed umano. 

E poi è arrivata la puntualizzazione di Papa Francesco, senza alzare la voce e senza bandiere all’inizio della messa mattutina a Casa Santa Marta. Poche parole, senza interferenze e senza altezzosità, ma vere e dettate dalla sola esigenza di rispetto per le decisioni e le scelte degli organismi tecnici e politici in materia sanitaria da un lato e la salvaguardia, al contempo, della fede e dei suoi riti dall’altro. Quella che, in altri tempi – anche se il principio è sempre valido – si chiamava semplicemente “cultura della mediazione”.

Ecco come si può smorzare una polemica nata quasi dal nulla. Anche se comprensibile in un contesto turbolento come quello che stiamo vivendo. Una piccola lezione per il futuro. Che si ripresenterà, e per l’ennesima volta