In questo periodo dovremmo evitare di attribuire al virus patologie tipiche del sistema in cui viviamo e della comunicazione sociale che pratichiamo. Ma a volte è forte la tentazione di riconoscerne un portatore di verità, capace di smascherare vizi pregressi.

La notizia dello sciopero dei farmacisti, in riferimento al prezzo (calmierato) delle mascherine stabilito dall’ultimo DPCM, lascia francamente perplessi. Si tratta infatti di una categoria che – assieme ai supermercati – negli ultimi due mesi ha continuato a lavorare, più o meno regolarmente.

Nessuna autocritica per le speculazioni precedenti, sul prezzo delle medesime mascherine? Nessun imbarazzo per il tempismo e l’opportunità della protesta?

Nulla a che vedere con quanti durante il lockdown sono “rimasti a casa”, senza incassi certi e con prospettive incerte di ripartenza. E’ notizia di oggi che, solo nella città di Roma, la metà delle sale cinematografiche presenti sul territorio potrebbe non riaprire i battenti. Stessa sorte per i piccoli teatri. Nel silenzio e nell’indifferenza generale del cosiddetto “mondo della cultura”.

Sembra davvero che con la cultura “non si mangia”, che sia un fenomeno del tutto marginale, a parte qualche ospitata televisiva di attori e scrittori di chiara fama. Come se la cultura fosse un compartimento a tenuta stagna, separato dal resto della vita sociale e dello stesso settore produttivo. 

Si parla da settimane di un “fondo a sostegno della cultura” ma a parte qualche editoriale interessato sui giornali e qualche sostegno simbolico da parte del mondo dell’associazionismo culturale, nulla si è fatto in concreto. Nello stesso periodo, in Germania la Merkel ha approvato un “Recovery plan” da miliardi di euro per sostenere l’arte, il teatro, il cinema, le orchestre, i musei, le biblioteche, con incentivi fiscali, sostegni materiali, una rete di sicurezza sociale per i lavoratori che rischiano il posto di lavoro a causa dell’epidemia. “Nessuno sarà lasciato indietro” ha detto la Cancelliera nel suo intervento al Bundestag.

In Italia, il futuro che ci attende è una progressiva desertificazione del nostro patrimonio culturale. O ci si rende conto che siamo sull’orlo di un precipizio e che migliaia di persone rischiano di restare ai margini, oppure non avremo più una “industria culturale” domestica. Tertium non datur. Tutti lo sanno, eppure sembra prevalere la rassegnazione e la rinuncia. Dovremmo cercare di impedirlo.