Nel merito la proposta di riforma costituzionale presentata dal governo Meloni costituisce senza alcun dubbio un tema fondamentale da dibattere. Si tratta infatti di un progetto che mira a mutare delicati e consolidati equilibri del nostro sistema istituzionale.
Per i Popolari di una certa scuola (al di là delle attuali parrocchiette in cui purtroppo appare frantumato questo mondo), la scuola dei Ruffilli, degli Elia, dei Bodrato e altri autorevoli maestri, sembra abbastanza scontato l’effetto che la riforma costituzionale della Meloni può produrre su di noi: quello di ricompattarci attorno al modello di democrazia parlamentare definito dalla Costituzione. Perché, anche se non dichiarato, il premierato della Meloni rappresenta un ripiego dal progetto originale che è quello di un presidenzialismo non proponibile in Italia per le note vicende storiche che hanno caratterizzato il nostro Paese. Un ripiego che forse per certi aspetti, rischia di suscitare persino maggiori perplessità di un presidenzialismo vero, con i suoi dovuti contrappesi. Un progetto, quello in senso lato presidenziale, peraltro che trova consensi non solo a destra, ma anche in quegli ampi settori della sinistra che sostengono il bipolarismo.
Ma se si prova ad allargare un pochino l’orizzonte, chiedendosi quale impatto può avere questa riforma sull’area di centro, il discorso cambia parecchio e si complica. Perché anziché compattarla quest’area, l’elezione diretta del premier la divide e pure in profondità. Il modello del “sindaco d’Italia” è infatti inscindibilmente legato, nel bene e nel male, alla leadership di Matteo Renzi, e all’attuale partito di Italia Viva, che consideriamo, noi Popolari, un interlocutore imprescindibile per la costruzione del Centro. Vi è di più. Oggettivamente sulle riforme istituzionali la posizione dei Popolari appare culturalmente più affine a quella della sinistra massimalista della Schlein che a quella dei settori riformisti del Pd, proprio mentre nel contempo consideriamo i secondi nostri naturali interlocutori e la prima quasi una avversaria politica.
Se così stanno le cose, e se il mondo che fa riferimento al popolarismo, non vuole rinunciare né a una fondata critica all’elezione diretta del premier né, d’altra parte, al progetto politico del Centro, allora la sfida politica consiste nella capacità di trasformare la valutazione della riforma costituzionale da possibile scoglio che rischia di mandare in frantumi un progetto politico, in un’occasione per trovare un metodo di discussione e di confronto con cui valorizzare la diversità inevitabile dei giudizi con l’altrettanta importante necessità di una sintesi, che non sia solo di facciata ma capace di comporre e articolare le preoccupazioni di tutti.
Se daremo prova di saper affrontare nell’area di centro, il tema delle riforme istituzionali con un tale spirito, si potrà forse arrivare uniti alle prossime Europee e trovare la chiave che in futuro consenta di gettare le basi per una esperienza politica di centro maggiormente strutturata e rappresentativa, dei territori e dei ceti sociali.
E forse, così facendo, ci si accorgerà insieme dei limiti intrinseci di un modello istituzionale come quello tratteggiato dal governo che non ha uguali in Occidente se non per un breve periodo in Israele, dove non ha conseguito i risultati sperati. E soprattutto emergerà la consapevolezza che la “madre di tutte le riforme” non sono quattro regolette immaginate come sostitutive della dialettica politica interna e parlamentare per il perseguimento di una stabilità solo di facciata, alla francese, ma la madre delle riforme è primariamente costituita dal corso inarrestabile della Storia, che volenti o nolenti ci pone delle sfide – in questa fase soprattutto di ordine socio-economico e geopolitico – che si possono affrontare solo con la politica, ovvero con un confronto reale di posizioni e non con un’artificiale semplificazione della rappresentanza e dei punti di vista.