Conservatorismo e progressismo, rischio guazzabuglio?

In vista delle elezioni europee ci sarà un fiorire di “aggettivi” che scorteranno il sostantivo di ogni “partito”. Al meglio avremo dichiarazioni identitarie del tipo “siamo questo…ma siamo anche quest’altro”.

Diceva François-René de Chateaubriand, scrittore e politico francese: «Io non credo nella società europea. Fra cinquant’anni non ci sarà più un solo sovrano legittimo, dalla Russia alla Sicilia, non prevedo che dispotismi militari. E tra cent’anni…può darsi che noi stiamo vivendo non solo nella decrepitezza dell’Europa, ma in quella del mondo». 

L’esperienza del mondo lo aveva reso un disincantato. Commentava spietatamente rispetto ai fatti non così dissimili da oggi: «Nella società democratica, basta che voi sproloquiate sulla libertà, la marcia del genere umano e l’avvenire delle cose, aggiungendo ai vostri discorsi qualche croce d’onore, e sarete sicuri del vostro posto; nella società aristocratica, giocate al whist, spacciate con aria grave e profonda luoghi comuni e frasi eleganti preparate prima, e la forma del vostro genio è assicurata».

Siamo in vista delle elezioni europee ed incominciano a scaldarsi i muscoli contro le parti politiche avverse. Per l’elettore non sarà così facile orientarsi. 

A prima vista i blocchi ideologici di più immediato riferimento sono i conservatori e i progressisti. Di mezzo e di lato altre formazioni con una varietà di nomi più o meno attrattivi e giustificati.

Eppure a ragionarci un attimo sopra le cose sono appena più complicate. Senza fare un ripasso di storia, il conservatorismo, come è noto, nasce in opposizione alla rivoluzione francese, opponendosi ai progetti utopistici di società perfette, difendendo il diritto di libertà individuale e del mercato, intransigente in tema di ordine sociale e legalità. Infine, come tratto distintivo, aveva a cuore i temi della tradizione, della famiglia e della proprietà privata. Tutto ciò senza però degradare nel reazionarismo che contrastava invece ogni forma di innovazione rispetto allo status quo.

Per la cronaca il fondatore del conservatorismo inglese fu Edmund Burke, che singolarmente era un Whig, cioè un liberale. Burke propugnò un conservatorismo meno integralista di quello di Chateubriand sostenendo, ad esempio, la rivoluzione americana e disconoscendo al contrario quella francese. 

Da quelle primordiali esperienze nacquero, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, una serie di posizioni politiche ricche di distinguo e di commistioni di idee tra il fronte conservatore e quello di matrice democratica.  

Per farla breve, il XIX secolo vide i conservatori riluttanti ai temi sociali ma propensi al libero mercato; ciò in opposizione ai liberali che erano maggiormente progressisti sui temi sociali e protezionisti. Per dire della evoluzione di quella esperienza, durante il XX secolo i conservatori allentarono il loro ostracismo sui temi sociali, orientandosi verso un maggior protezionismo.

Nel tempo contiamo una serie di declinazioni del conservatorismo che lasciano riflettere.

È possibile grossolanamente rammentare i conservatori più aperti ai temi sociali (chiamati “compassionevoli”), quindi il conservatorismo liberale (alla “sinistra” del panorama conservatore) e a seguire il conservatorismo libertario, tipicamente presente negli Stati Uniti e nel Regno Unito, che rivendica posizioni libertarie in economia e generalmente conservatrici sui temi etici.

L’elenco non è finito. Ancora è possibile chiamare all’appello il conservatorismo nazionale, a “destra” del movimento conservatore, ribattezzato negli Stati Uniti come “paleo-conservatorismo”. Vanno citati anche il neo-conservatorismo statunitense, il conservatorismo uninazionale propriamente britannico, il teo-conservatorismo, il conservatorismo verde, il conservatorismo fiscale, culturale, tradizionalista, sociale e chi più ne ha più ne metta.

Quanto al progressismo, trova invece iniziale originaria ispirazione dal positivismo, dall’illuminismo, dall’evoluzionismo e da una lettura razionale della realtà.    Fa scuola la puntuale definizione di Tullio De Mauro: «Un partito progressista sostiene la possibilità del progresso e dell’evoluzione della società, ed è fautore di riforme che facilitino tale processo, in ambito politico-istituzionale, sociale, economico e civile».

“Progressus” significa fare un “passo avanti”, procedendo in modo coerente ai propri ideali. Sta di fatto che la corrente di pensiero progressista a sua volta si è dispersa i numerosi rivoli. Ne sono testimonianza il socialismo liberale, il riformismo, il liberalismo sociale, il socialismo democratico, la “terza via” e avanti fino all’inverosimile.

Nel corso della storia ogni schieramento ha attinto a questo o a quel tema del fronte opposto strizzando l’occhio alle categorie che ne potessero essere coinvolte innanzitutto elettoralmente.

C’è da credere che in vista delle elezioni europee ci sarà un fiorire di “aggettivi” che scorteranno il sostantivo di ogni “partito”, così che ciascuno sia tutto e il contrario di tutto. Al meglio avremo dichiarazioni identitarie del tipo “siamo questo…ma siamo anche quest’altro”, in modo da raccattare il consenso il più possibile alla faccia di ogni eventuale incompatibilità. L’uso acconcio degli aggettivi salverà il matrimonio tra capra e cavoli.

Si sente aria di annunci da vecchie serate di sabato sera in televisione, con lo strillo del presentatore che lanciava enfaticamente la sigla della trasmissione.

Sentiremmo di fare solo una raccomandazione di stile e di sostanza. Si va in Europa per stare. I leaders di partito, che si candidano in più circoscrizioni per “tirare” voti in virtù della loro immagine, lasciando poi il posto ad altri, non sono un bello spettacolo. Tra i tanti “ismi” finali di ogni posizione politica, risparmiateci l’isterismo insano di una competizione elettorale ai danni di una politica già da tempo in pessima salute.

Siate compassionevoli.