Cosa fu il convegno sui Mali di Roma?

Fu una scossa per la società e la politica. Oggi è tempo di riprendere il lavoro di ascolto e di elaborazione politica per fornire risposte concrete, umanamente e cristianamente ispirate.

Fra pochi giorni saranno trascorsi cinquant’anni da un avvenimento ecclesiale, culturale e politico di eccezionale rilievo per il cattolicesimo politico nel nostro Paese. Ci riferiamo al convegno sui “mali di Roma” che, nei giorni 13-15 febbraio del 1974, ruppe un equilibrio di relazioni ormai consunte fino al limite del formalismo ipocrita tra la Chiesa e la dimensione civile e politica. Il cardinale Poletti, un piemontese tanto mite e cortese quanto tagliente e determinato, voluto dal Paolo Vi come vicario generale nella diocesi del Papa, promosse una iniziativa che mobilitò intensamente tutto il vivace arcipelago di comunità, parrocchie e gruppi critici presenti nella città.

Dopo una lunga fase di consultazione e di preparazione il 25 ottobre del 1973 il Cardinale annunciava con una conferenza stampa questa iniziativa, ponendo di fronte a tutti una domanda per certi aspetti retorica, ma che era anzitutto una sfida per la stessa Chiesa romana come prima fra le chiese locali: “Ci si domanda: ma la Chiesa ha ancora qualcosa da dire alla società di oggi? Certamente:  ha da dire che il mondo attuale è inaccettabile e che l’uomo ha la vocazione di trasformarlo e di comandare l’orientamento del suo divenire collettivo”. L’interrogativo ebbe l’effetto di uno scossone improvviso e inatteso, di un richiamo alla responsabilità deciso sull’onda del magistero conciliare del Vaticano II. La domanda di Poletti era diretta a tutti: certamente in primo luogo al clero romano e alle migliaia di religiosi e religiose presenti nella città. Ma il vero e inequivocabile destinatario era il laicato cattolico chiamato ad una vita adulta, ad assumere concrete responsabilità, ad abbandonare formali e astratte difese valoriali, e a progettare e costruire le risposte civili e politiche, comunitarie e solidali, per realizzare una maggiore giustizia sociale diffusa in una realtà dove pochi avevano tantissimo e la maggior parte viveva in condizioni di precarietà.

Il Cardinale fece seguire alla domanda anche una lunga e documentata requisitoria sugli squilibri e le carenze della città, spiazzando l’opinione pubblica e tutta la stampa abituata a pensare che quelle argomentazioni fossero prerogativa di ristrette comunità e preti del dissenso. Un aiuto decisivo in questa iniziativa venne da altri protagonisti fondamentali. Anzitutto don Luigi Di Liegro, indimenticabile animatore pastorale della città, legato anche a molti giovani dirigenti democristiani. Ma anche dal teologo rosminiano don Clemente Riva che sottolineò il carattere intellettualistico e individualistico della religiosità dei romani, cattolici per tradizione più che per scelta consapevole. Riva pose in evidenza il gravissimo ritardo educativo, civile e religioso, e alla luce del Concilio richiamò le sfide grandiose per i laici cristiani: “Il mondo, la storia, l’umanità, il progresso, la vita sociale e politica, pongono al cristiano un rapporto stretto con la sua fede religiosa”. Con grande fiducia negli uomini, Riva concluse la sua relazione ricordano che “è la società stessa che è motore e guida del suo sviluppo”. Fondamentale anche il contributo di un giovane Giuseppe De Rita, ricercatore e sociologo, che dopo aver richiamato le responsabilità del grande ceto medio romano afflitto da “egoismo individuale e collettivo e da radicata deresponsabilizzazione” concludeva “Roma è certamente il punto più alto di non partecipazione collettiva”.

La Dc romana si trovò incerta e trascinata dagli eventi. Un documento uscito in quei giorni riconosceva larga parte degli squilibri sociali denunciati dal vicario del Papa, la mancanza di solidarietà e di spirito di comunità civica, ricordando come momento comunitario esplicito di coscienza civile cittadina il drammatico episodio della sanguinosa battaglia contro i nazisti e i fascisti il 10 settembre del 1943 a Porta San Paolo. Se questo riferimento costituiva certamente un punto di coscienza politica alta, un segnale all’apposizione comunista per nuove forme di collaborazione, tuttavia era evidente l’impreparazione ad affrontare la mole di problemi che si era accumulata: una politica urbanistica di espansione disordinata e speculativa, la mancanza di reti di servizi sociali e di trasporti adeguati nelle sterminate periferie, l’assenza di una qualche idea di sviluppo economico autonomo per la città che non fosse l’immensa leva burocratica pubblica e il terziario privato che operava a Roma soprattutto per esigenze di rappresentanza.

La fotografia di Roma in quel momento aveva però profonde similitudini con tutto il mezzogiorno e con larghe parti del centro nord ancora marginali e in bilico tra depressione e sviluppo. Aldo Moro nella Direzione centrale della Dc il 22 maggio del 1974 così si esprimeva: “Il modo di essere, di manifestarsi, di incidere sulla realtà sociale e politica della nostra ispirazione cristiana, la fisionomia della società italiana degli anni ‘70, da guidare aderendovi, con illuminata saggezza, il nostro ruolo politico, sono oggi soggetti a riesame”.

L’attualità del convegno ecclesiale del febbraio 1974 e delle parole di Moro come sempre molto (troppo) lucide, sono di tutta evidenza in questo tempo nel quale la destra politica ha in breve mostrato tutti i suoi miserevoli limiti, e l’area del centro-sinistra è come sospesa in attesa, orfana di un federatore inesistente. Per il nostro cattolicesimo politico valgono decisamente oggi i moniti di Poletti, di Riva, di Di Liegro, di De Rita, di Moro: scuotersi da un torpore di chi pensa di avere una rendita da difendere, un patrimonio valoriale incantato da proteggere e brandire di tanto in tanto contro gli altri.

È tempo allora di riprendere il lavoro di ascolto e di elaborazione politica per fornire risposte concrete, umanamente e cristianamente ispirate. È tempo di misurarsi con una nuova stagione di missionarietà politica, ovvero di presenza attiva in mezzo alla gente comune, a quell’enorme ceto medio impiegatizio, operaio, agricolo, ma anche autonomo e di piccoli imprenditori che in tutto il Paese ha smesso di avanzare e teme di scivolare per sempre indietro. È tempo di riconoscere diritti e dignità di tutti, ciascuno con la propria diversità, eliminando barriere disumane che il sentimento comune non vive più. Bisogna ricostruire con pazienza una coscienza comune in ogni città e nel Paese, a partire da come esso realmente è, avere fiducia in ciò che di straordinario si è costruito fino ad oggi sulle macerie del dopoguerra. Come ricorda con voce potente ogni giorno Papa Francesco. Non solo per Roma ma per tutto il nostro Paese e per un’Europa sempre più casa comune.