Cosa possiamo apprendere dai famosi due gesti di Giulio Cesare

È interessante ripercorrere la vicenda umana di Giulio Cesare perché riprende i tratti della mitologia greca e dei suoi eroi: riflesso epico della grandezza degli Dei e misura delle alterne vicende della vita.

La sera del 10 gennaio del 49 a.c. Giulio Cesare, di ritorno dalla vittoriosa campagna militare in Gallia, fermò il suo carro trainato dai cavalli sulla sponda del fiume Rubicone, sostando a lungo e meditando in silenzio. Aveva in animo di attraversare quel breve fiume romagnolo, considerato il confine tra la provincia Gallica e lo Stato romano per raggiungere e conquistare Rimini, in ciò sfidando Pompeo, finora suo alleato, che sarebbe diventato suo acerrimo avversario in una decisiva e feroce guerra civile.

Nel racconto che ci fa Plutarco, secondo la traduzione di Mario Scaffidi Abbate (nel suo “Vite parallele”), si legge tutta l’intensità emotiva della decisione che Cesare doveva prendere. Come ci ha insegnato la storia tramandata Giulio Cesare passò infine il Rubicone consegnando alla leggenda le brevi parole pronunciate per suggellare l’ardimentosa scelta: “Iacta alea est”, secondo la versione di Svetonio, più comunemente “Alea iacta est” nell’uso letterario e più ripetuto di quella citazione. Anche se molti secoli dopo Erasmo da Rotterdam coltivò la suggestiva ipotesi che fosse stata troncata per errore l’ultima lettera, per cui “est” sarebbe stato in realtà “l’imperativo “esto”, caricando di maggior significato la decisione assunta. Non “il dado è tratto”, come siamo solitamente usi a menzionare, bensì il più perentorio “sia tratto il dado”.

Anche “passare il Rubicone”, metafora della scelta compiuta, è consegnata alla storia e al lessico in uso come l’espressione più esplicativa di una importante, irreversibile, decisione da prendere: un gesto da cui non si può più tornare indietro. In realtà una prassi scemata nei secoli visto il susseguirsi delle vicende umane, in cui la pace è diventata via via una parentesi tra due guerre mentre le tattiche hanno lentamente preso il posto delle strategie. Sono passati oltre duemila anni ma l’umanità non è riuscita a liberarsi dal giogo ricorrente dei conflitti bellici tanto che vien da chiedersi come e perché la giurisprudenza e la diplomazia affinate nel corso dei secoli siano alla fin fine sempre soccombenti di fronte all’accendersi di una guerra armata.

Queste parole passate alla storia come espressione di ardimentoso coraggio non sono state metabolizzate e stemperate nell’epoca della post-modernità dalla politica come luogo delle mediazioni possibili: ancora oggi ci sono dadi da trarre o ‘fiumi’ da passare. Le vicende umane esprimono tutto il loro incerto movimentismo, legato a circostanze mutevoli, ad alleanze insicure, alle preoccupazioni della posta in gioco che sono compresenti ad un’indifferenza raggelante: ancora oggi Dante non riterrebbe degni gli ignavi di entrare nell’Inferno.

Trovo interessante ripercorrere la vicenda umana di Giulio Cesare perché riprende i tratti della mitologia greca e dei suoi eroi: riflesso epico della grandezza degli Dei e misura delle alterne e mutevoli vicende della vita, dove le dimensioni umane nascoste sono più interessanti di quelle trionfalistiche. Ce lo ricordano Ettore, Achille, Ulisse, Orfeo, Narciso, Pandora…

Una dimensione umana che ritroviamo intatta e accresciuta il 15 marzo del 44 a.c., – le cosiddette Idi di Marzo – il giorno dell’assassinio di Giulio Cesare, il crimine più famoso dell’antichità. In quell’episodio si legge la gamma infinita dei sentimenti umani: il tradimento, la codardia, la viltà, il parricidio, la consapevolezza di compiere un atto mortale, la vendetta, l’invidia, il rancore, la scelleratezza.

23 coltellate uccisero il dictator, colui che pensava ad un assembramento benevolo di fedeli senatori.

Anche questa parte di storia si ripete nei fotogrammi degli efferati delitti del nostro tempo, con le stesse modalità vigliacche: in fondo, fuggendo a sé stessi, gli assassini si avvalsero della facoltà di non rispondere. Ma ciò che colpisce di più di quella scena è ancora una volta un gesto unico e consapevole che spiega la grandezza di Giulio Cesare: quello di alzare la tunica e avvolgervisi dentro, per non vedere le pugnalate e per nascondersi in una nicchia di abbandono e di pudore, per non esporre il proprio corpo trafitto.

Non si può non usare quell’immagine come icona e metafora dei tradimenti e degli omicidi più efferati di ogni tempo, fino ad oggi.  Pensando all’abbandono del proprio corpo alle mani armate di coltello, viene in mente che in quell’istante fatale e conclusivo dell’esistenza la si ripercorre fino a comprendere quanta falsità e quanto inganno la possano risolvere, sorprendentemente, in un attimo. Ma anche in che modo e improvvisamente si avvalorino i presagi che abbiamo sovente pensato e respinto confidando nella bontà dell’essere umano.