Se un partito delega al popolo dei gazebo il compito di individuare le sue leadership, inevitabilmente cede sovranità e quindi la sua stessa funzione politica. È una riflessione che la sinistra deve aprire al proprio interno, soprattutto per capire se in questo modo non si rischi d’indebolire, direttamente o indirettamente, la già debole democrazia.
Giorgio Merlo
A primarie celebrate verrebbe da chiedersi: ma allora, cosa resta di queste primarie? Al riguardo, le opinioni divergono radicalmente. Se la sinistra italiana, quasi tutta la sinistra, continua ad individuare in questo strumento burocratico protocollare una sorta di dogma infallibile e salvifico, un totem ideologico intoccabile e da venerare quasi tutti i giorni, per il resto del mondo resta poco più che un modo per trasferire al di fuori del Pd – cioè nel sempre più piccolo recinto dei partecipanti al voto, che vanno comunque sempre rispettati – la resa dei conti delle infinite correnti o bande che scorrazzano da quelle parti. Ovvero, un semplice prolungamento pubblico degli eterni contrasti interni di cui il Pd è portatore sano da ormai molto tempo. Del resto, è appena sufficiente leggere i commenti di tutti gli osservatori e i commentatori non interessati alle sorti politiche ed elettorali del Pd, per rendersene conto in modo persin plateale.
Ora, su queste benedette primarie della sinistra, si impongono almeno due riflessioni, al di là di ogni altra considerazione.
Innanzitutto i partecipanti al voto. Nessuno, come ovvio, mette in discussione la bontà e la passione di chi si reca ai gazebo a votare. Anche e soprattutto in una domenica afosa. Una forma di partecipazione che va sempre apprezzata e valorizzata. Ma è indubbio che proprio attorno ai partecipanti al voto registriamo le versioni più incredibili. È appena il caso di ricordare che il secondo classificato alle primarie di Roma già la sera stessa del voto metteva in discussione la cifra reale dei partecipanti denunciando oltre 10 mila voti in meno rispetto alla versione ufficiale data dal partito…
Ma, senza dilungarci sui numeri e sulle cifre che vengono sfornate – del resto sempre molto ballerini e altalenanti – è indubbio che è proprio lo strumento in sè che ha perso di significato. Perchè, appunto, da grande momento di partecipazione popolare le primarie si sono ridotte progressivamente ed irreversibilmente a regolamenti di conti tra le fazioni di un partito. Insomma, un congresso pubblico senza i crismi che richiede storicamente un congresso: e cioè, mozioni, piattaforme politiche, confronto e discussione e poi votazioni finali. Qui si oltrepassa tutto salvo la conta finale che diventa, inesorabilmente, una conta tra le persone. Di norma, tutti contro contro il candidato di turno dell’apparato centrale.
In secondo luogo, ed è la riflessione più importante perché meno legata al contingente, le primarie – piaccia o non piaccia – sono uno strumento burocratico che impedisce definitivamente ai partiti di scegliersi la propria classe dirigente. O meglio, priva il partito dell’unico compito che teoricamente dovrebbe toccargli: ovvero, selezionare la propria classe dirigente. E un partito che viene privato, addirittura per statuto, di un compito e di una responsabilità del genere, non può che diventare un cartello elettorale da un lato o un “partito del capo” dall’altro.
Ecco perchè attorno alle primarie, al loro uso e alla loro concreta gestione, non entra in gioco solo la discussione su uno strumento burocratico protocollare ma, addirittura, si discute del ruolo e del profilo che deve assumere un partito nella società contemporanea. Perchè in discussione non c’è solo la modalità concreta e regolamentare di come scegliere una classe dirigente ma lo stesso ruolo che in una democrazia sempre più plebiscitaria e in un contesto ancora, e purtroppo, dominato dal populismo, può e deve giocare un partito politico.
Sarebbe importante se anche nella sinistra italiana, al di là della continua propaganda ed esaltazione acritica dell’uso delle primarie, partisse una riflessione su ciò che innesca a lungo termine una pratica del genere. Per la credibilità della politica, per la salute dei partiti e per la stessa qualità della nostra democrazia repubblicana.