Dalla piazza al governo: due linguaggi diversi
Resta una domanda inevasa, anche e soprattutto alla luce delle vicende legate allo storico “accordo di pace” sul futuro del Medio Oriente, su ciò che è capitato — e che sicuramente capiterà ancora — nel nostro Paese. E cioè: cosa resta dopo la predica e la pratica politica quotidiana dell’estremismo, del massimalismo e del radicalismo?
Perché un conto è salutare positivamente e convintamente la discesa in piazza di centinaia di migliaia di persone per manifestazioni pacifiche e democratiche. Altra cosa, tutt’altra cosa, è cavalcare sistematicamente e fare propri gli slogan più violenti, più radicali e più estremisti che proprio quelle piazze hanno anche sprigionato.
La prova della politica estera
Un partito, o una coalizione, che hanno l’obiettivo di governare un Paese e quindi, di conseguenza, di cercare di declinare una vera e credibile cultura di governo, sono francamente incompatibili con atteggiamenti e comportamenti che accarezzano gli estremismi della piazza e che poi, d’incanto, fingono di essere governisti in sede istituzionale.
Ora, per essere chiari e senza equivoci, è indubbio che quando si parla di politica estera, di assetto geopolitico, di alleanze internazionali e di scelte concrete, l’estremismo e il radicalismo cedono il passo di fronte al realismo della politica e alla maturità della cultura di governo.
Due coalizioni a confronto
Se dobbiamo valutare concretamente il comportamento delle due coalizioni maggioritarie oggi in campo, non possiamo non avanzare una riflessione ben precisa. E cioè: nella coalizione di governo questa pratica decisiva — cioè la politica estera — è decisa, pianificata e progettata dalla Presidente del Consiglio e dal Ministro degli Esteri, mentre il populismo e l’antieuropeismo della Lega di Salvini non condizionano affatto la strategia politica complessiva.
Sul versante opposto, invece — quello dell’alleanza di sinistra — la politica estera oltre a dividere profondamente i partiti che fanno parte della coalizione è elemento anche di spaccatura all’interno stesso dei partiti. Un elemento, questo, che non può passare inosservato perché proprio sulla politica estera si misura la credibilità, l’affidabilità e la maturità di una coalizione politica.
Gli slogan come identità e limite
Per queste ragioni, semplici ma oggettive, il massimalismo e l’estremismo restano incompatibili con qualsiasi cultura di governo. Anche perché quando si cavalcano o si accarezzano o, peggio ancora, si condividono gli slogan estremisti e radicali, proprio quelle parole d’ordine rischiano di diventare parte dell’identità e del profilo stesso di quei partiti e di quella coalizione.
E quando c’è qualche ripensamento su quella piattaforma estremista, o si perdono settori consistenti dell’elettorato oppure, al contrario, diventa di fatto impossibile tradurre quegli slogan in un programma di governo.
La politica tra leaderismo e responsabilità
Ecco perché, anche in una stagione politica dove i partiti sono diventati il semplice prolungamento dei rispettivi capi o grigi ed aridi cartelli elettorali, gli slogan non possono diventare i tasselli fondamentali di un progetto politico.
Prima o poi i nodi vengono semplicemente al pettine: e se la politica è debole ed incerta non si ha la titolarità per guidare un Paese e per determinarne gli indirizzi programmatici. Soprattutto nel campo sempre più delicato e complesso della politica estera.