L’Europa unita sarà quella di Alcide De Gasperi o quella di Angela Merkel? La guerra d’Ucraina rende visibile l’urgenza assoluta di procedere all’Unione Politica, anche prima del completamento dell’Unione Economica, come era stato intuito e caldeggiato dal leader trentino. Il Rapporto Draghi e la sua traduzione in realtà, la competitività europea, la sopravvivenza europea, l’essenza morale della Federazione Europea, da costruire in tempi ravvicinati: sono questi i nodi autenticamente degasperiani da sciogliere ai nostri giorni, settantadue anni dopo il capolavoro politico compiuto dallo statista di Pieve Tesino con la firma del Trattato della CED (Comunità Europea di Difesa) a Parigi nel 1952.
Il Cremlino e l’Europa unita nel 1952-1953 e nel 2024 ci appaiono quasi come corsi e ricorsi della storia a 70 anni di distanza. Proviamo a intelaiare uno scenario. Incidentalmente, notiamo che non esistono grandi europeisti viventi, l’ultimo essendo stato Jacques Delors, con un’unica eccezione: quella di Mario Draghi; il quale però, essendo il solo, non ha con chi costruire un impegno comune. Vediamo lo scenario. Qualcuno, molto preparato, allestisce un progetto credibile di unità politica europea, anche se ristretto a pochi Stati nella fase iniziale (tre). Di fronte a questo progetto compiuto e credibile, nessun paese dell’Unione Europea, forte dell’esperienza (fuorviante) dal 1992 ad oggi, si manifesta come moralmente pronto e ardente dal desiderio per arrivare a una unità politica integrale e irreversibile, a una società civile unitaria, lasciandosi alle spalle una condizione di protezione e di prosperità invidiabile ottenuta dal proprio paese soltanto grazie alla partecipazione all’Europa (pensiamo ai Paesi Bassi o al Lussemburgo o all’Irlanda e al loro vantaggio competitivo ottenuto con il dumping fiscale per le grandi aziende o al peso della attività come piazze finanziarie a scapito di altri partner europei). In gran numero vogliono e cercano il perpetuarsi dell’attuale strana e difettosa collaborazione confederale soprattutto “di mercato” da cui trarre il massimo delle rendite di posizione o dei vantaggi nazionali, senza alcuna ipoteca morale che è invece necessaria alla scelta di futuro, mentre nessuna miglioria viene consuntivata dalla società continentale nel suo complesso e in quanto tale: che dunque rimane in preda alle sue contraddizioni e convulsioni.
Il parlamento in Europa in pratica è una parola vuota, non conta, non serve a molto e soprattutto non decide su niente di essenziale; nel suo ambito non si immagina nulla e non si inventa nulla; si eseguono compiti escogitati da altri. Serve soltanto a dire ai cittadini europei: ecco, vi ho fatto votare; che volete di più? Di qui si capisce che il voto non è l’istanza primaria della democrazia.
Questa singolare democrazia europea (dove si vota, sì, ma non si sa per fare cosa) richiede che ci si interroghi, e al più presto si diano risposte valide ed esaurienti, sui concetti di popolo europeo, di democrazia, di giustizia e quindi di giustizia sociale, di libertà, di uguaglianza, di fratellanza, di sviluppo; tutti concetti, questi, da rapportare ai grandi numeri, alle diversità e agli scarti esistenti nel continente europeo. I paesi ad alto volume demografico (come ad esempio la Germania) cercano da sempre (e trovano, anche brutalmente) compensazioni, lamentando di essere i maggiori contributori al bilancio europeo, e rendono la democrazia stessa, quale praticata molto alla buona a livello di Unione Europea, ancora più sbilenca; dove soprattutto non si cercano obiettivi di fondo circa il perfezionamento, il miglioramento delle condizioni in cui versa l’intera comunità dei cittadini europei, immigrati compresi, a cominciare dalla pace e dalla più idonea condizione militare e di sicurezza essenziale per garantirla (intelligence, tecnologie militari, anche spaziali, e così via). Pace per sé e insieme, indissolubilmente, pace per i propri vicini. Insomma, non si fa ricerca del bene comune: che è l’essenza della democrazia. Pensare alla comunità economica come mantra nell’Unione Europea ha voluto dire la crescita senza limiti di una sorda alta competizione appunto economica dei partner uno contro l’altro, invece di sviluppare una forte competitività verso l’esterno. Non è dato sapere se Jean Monnet, il profeta dell’Unione Economica, avesse previsto o meno la esasperata concorrenza interna, spesso impropria ed eccessiva, tra i partner europei. I risultati della quale oggi si vedono.
I paesi UE sono stati fin qui coinvolti in un disegno che è totalmente privo, per dirla con De Gasperi, della necessaria “base morale”. Un disegno che non è di futuro. E che dunque non è veridicamente politica e non è speranza democratica. La base morale della Federazione Europea quale approfondita dal leader trentino, lungi dall’essere primariamente un’istanza di natura cattolica o comunque un dato opzionale, è una cosa terribilmente seria ed è una componente fondamentale, irrinunciabile. Questo aspetto a suo tempo viene colto da Robert Schuman e Paul-Henri Spaak ascoltando De Gasperi nel 1948; e da essi pienamente condiviso.
Ora, negli anni Venti del XXI secolo, tre quarti di secolo dopo, questo dato di mancanza assoluta di base morale della Federazione Europea è diventato esiziale.