Da lontano…per capire la ribellione al modello di liberismo autocratico.

Tra gli indigeni Tikmũ’ũn, un confronto con l’identità friulana: fra qualche giorno, in regione, si andrà al voto. Basta rassegnazione, un nuovo tempo esige che si affermi un’idea di fraternità sociale.

Spesso è ai margini che nascono le idee migliori e rivoluzionarie. È dai confini, dove si intersecano direzioni diverse e le voci hanno bisogno di traduzione, che il futuro si può toccare con mano perché arriva prima. In questi luoghi la dimensione locale non è uno spazio angusto e recintato, ma è il globale stesso, nella sua forma piena, molto più che nelle metropoli.

Per ragioni di ricerca scientifica mi trovo in Brasile, ospitato dagli indigeni Tikmũ’ũn dello stato del Minas Gerais. I risultati delle elezioni regionali in Friuli-Venezia Giulia del 2-3 Aprile mi arriveranno quando sarò in mezzo a fazzoletti di foresta tropicale. In questo contesto, in cui il locale e il globale condividono la stessa forma, ho voluto riflettere sul voto che i miei concittadini dovranno esprimere e sul nuovo paradigma di fare politica espresso del Patto per l’Autonomia.

Era il 25 ottobre 1918 quando i deputati friulani Giuseppe Bugatto e Luigi Faidutti chiusero il loro ultimo discorso al parlamento austriaco col motto «che nissun disponi di nô, sensa di nô». Che nessuno disponga di noi, senza di noi. Più d’un secolo dopo, la richiesta di autonomia ed autodeterminazione dei due parlamentari friulani a Vienna potremmo declinarla in due modi. Da una parte, essa indica che è diritto delle comunità autorizzare o meno qualsivoglia progetto proposto da istituzioni o imprese esterne ai territori delle suddette comunità. Dall’altra parte, afferma che non ci può essere nessun futuro e nessuna giustizia sociale senza il riconoscimento ed il rispetto della storia e delle forme di vita di tali comunità.

L’idea dei due parlamentari friulani riproposta oggi rimanda ad un’idea diversa del noi, soprattutto in una Italia che troppo spesso scorda di aver rimosso le identità locali preesistenti al Risorgimento. Serve un noi che sia un’articolazione solidale, comunitaria e cosciente di tutte le identità, minoritarie e non, che costituiscono il passato, il presente ed il futuro della nostra terra.

L’esperienza tra gli indigeni Tikmũ’ũn mi obbliga ad un confronto incessante con l’identità friulana. Quasi imparagonabili, la nostra regione ed i villaggi indigeni possono comunicare tra loro e raccontare qualcosa l’uno dell’altro. I Tikmũ’ũn lottano da anni per il rispetto negato da secoli e per l’ottenimento di condizioni di vita dignitose. La distruzione della foresta atlantica ha compromesso la risorsa più importante per i popoli indigeni, l’acqua, pregiudicando le due attività principali per la loro sussistenza, la caccia e la raccolta. In questa depressione ecologica, la dipendenza dai prodotti alimentari degli allevamenti e dell’agricoltura intensivi e industriali continua a negare la libertà dei Tikmũ’ũn e di tutti i popoli indigeni.

In questo momento un’équipe di antropologi e funzionari statali brasiliani sta promuovendo un progetto di agro-foresta per i territori tikmũ’ũn. Durante la presentazione del progetto nei vari villaggi, l’équipe ha richiamato incessantemente l’attenzione sulla Convenzione 169 del 2011 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la quale indica che nessun progetto possa essere attuato su un territorio indigeno senza l’autorizzazione delle comunità autoctone. Il principio filosofico che anima la Convenzione è simile a quello del discorso viennese dei parlamentari Bugatto e Faidutti. Con le dovute differenze dal contesto brasiliano, bisogna ricordare che anche in Europa questo principio andrebbe riaffermato, ad esempio per l’ultimo popolo indigeno europeo, i Sami della Lapponia, o per le comunità montane, come in Val di Susa. Restando a noi, dovrebbe valere anche per tutte quelle comunità che necessitano della tutela dei loro diritti ambientali e alla salute, ad esempio quelle affacciate al Tagliamento o al lago dei Tre Comuni e Casteons di Paluzza. Serve quindi un noi diverso perché questo principio possa essere riaffermato. E per realizzarlo serve una rete solida fra le generazioni e le classi sociali.

Nel frattempo, il sentimento dei miei coetanei riguardo alle elezioni è la frustrazione. Voteranno, ma senza ottimismo, con la classica disperata rassegnazione dei nostri tempi. Nonostante i tempi non siano benevoli, credo tuttavia che sia necessario abbandonare il nostro disfattismo perché le sfide che ci attendono pretendono un’articolazione incessante delle nostre migliori energie.

Assistendo alla campagna elettorale brasiliana del 2022, per le strade delle città, nei villaggi indigeni o nelle comunità rurali dei quilombolas si percepiva un’atmosfera surreale. I sostenitori di Lula sembravano senza speranze, ma mai rassegnati, animati invece da una vivacità contagiosa. I bolsonaristi, violentissimi nelle intenzioni, nei gesti e nelle parole (come hanno dimostrato anche l’8 gennaio durante il tentativo di golpe), sembravano invincibili nella loro spavalderia. Ciò che li ha sconfitti è stata la costruzione di una rete trasversale che abbraccia indigeni, agricoltori poveri, operai, piccoli imprenditori, dipendenti pubblici o di grandi aziende, intellettuali, studenti, minoranze, etc. Si è costruito un ponte tra i popoli per superare quelle frontiere di incomunicabilità erette tra le classi medie e povere. Diritto alla sanità pubblica, all’autonomia alimentare, all’acqua pubblica, ad un salario giusto ed un lavoro stabile, alla giustizia sociale e climatica, al riconoscimento ed al rispetto delle svariate identità sono state presentate da Lula come battaglie di tutti e non di una classe specifica. Si può vincere le elezioni in molti modi, ma si può avere successo solo unendo la società.

Bisogna quindi ricomporre la società e non bastano gli esseri umani. I fiumi, i boschi, le montagne, il cielo, il mare, la pianura, le colline, gli animali e le piante che li abitano non sono meno persone di noi. Hanno un ruolo sociale che abbiamo dimenticato. Hanno da sempre dei rapporti con noi, che oggi abbiamo annichilito. È nostro dovere ricostruire questi legami, rivedere le nostre idee sulla relazione con le altre forme di vita. Solo un programma politico che mette al centro la società lato sensu può riordinare le nostre priorità fuori dalla logica del profitto e dell’individualismo egoistico.

Infine, gli avvenimenti francesi delle ultime settimane ci riportano a terra. La mobilitazione contro la riforma delle pensioni usa tale occasione come pretesto per esprimere un malcontento più ampio, verso quella modalità di fare politica che potremmo oggi definire «neo-liberismo autocratico». La composizione dei manifestanti è di una varietà sociale che da tempo si faticava a notare nei grandi scioperi europei. Si potrebbe dire, senza troppe illusioni ottimistiche, che in questo momento in Francia è in corso un «ri-assemblaggio» del Sociale, in risposta al governo ed alla presidenza che più hanno inasprito le differenze sociali tra le classi. In una Europa sempre più frammentata, la necessità più impellente è quella di rendere traducibili e comunicabili le voci di coloro che chiedono una società giusta ed egualitaria. A livello europeo, penso sia imprescindibile sviluppare la fraternità, il principio più disatteso ed incompiuto della Rivoluzione Francese, che avrebbe dovuto essere il collante tra la libertà e l’uguaglianza. Questo sentimento non deve essere inteso solo nel suo senso universalistico e vago, ma innanzitutto nel suo essere incarnato nelle pratiche che fondano le comunità e nella comunione delle differenze che animano le società.

Ed è ai confini dell’Impero che una alternativa reale è nata. Il Patto per l’Autonomia incarna non solo il motto di Bugatto e Faidutti, ma tutte le novità migliori per aggiornare i nostri processi democratici. La sfida è tra una politica che preferisce gli interessi finanziari di coloro che non abitano i luoghi in cui cercano di ricavare i profitti, e una politica che mette al centro la vita delle comunità radicate nei loro territori e che reclamano un modello di sviluppo sostenibile e finalmente dignitoso.

[Teófilo Otoni – Minas Gerais, Brasile]