Due enormi emozioni planetarie si sono succedute. In due date ravvicinate. Il 21 aprile la morte di Papa Francesco e l’8 maggio l’elezione di Papa Leone XIV. Due eventi che hanno coinvolto l’umanità con grandi numeri. Esorbitante ovunque l’attenzione siaa Roma, sia nel resto del mondo per la successione al vertice di una Chiesa che raccoglie un miliardo e quattrocento milioni di persone. In un mondo oggi non in pace, ma travolto da tanti conflitti che Papa Francesco definì icasticamente “una guerra mondiale a pezzi”. Morte e distruzioni tra Russia e Ucraina, in Medio Oriente (a Gaza, Israele, Libano, Siria e Yemen), tra India e Pakistan e in Sudan e forniture di armi un po’ ovunque e sempre col timore di quelle nucleari. Eppure nell’arco breve di diciassette giorni qualcosa è profondamente cambiato. Non distruzioni e morti, ma qualcosa che tocca l’uomo più da vicino e cioè nella sua dimensione religiosa. Nonostante o forse anche per l’enorme deriva mediatica che ci ha accompagnato in queste poco più di due settimane, la fine di un pontificato e l’inizio di uno nuovo hanno sollecitato tanti uomini e donne ad una comprensione della fede religiosa; sia in chi ce l’ha, sia in chi non ce l’ha. Tutti però si sono sentiti coinvolti e interrogati tanto sulla fede personale, quanto sul sentirsi partecipi di una comunità, come dal sentirsene esclusi.
La Chiesa è questa misteriosa e pervasiva communio spirituale e sacramentale a volte visibile e più spesso racchiusa nel cuore di ciascuno senza segni esteriori. In queste due settimane è stato difficile per i credenti ed anche per i tanti che non lo sono, non prestare attenzione al significato della presenza cristiana nel mondo. Con la sua storia soprattutto spirituale prima ancora che rituale e dogmatica, ovvero con la presenza dei cristiani sulla scena del mondo. Del vecchio mondo trapassato nel tempo e in quello attuale diviso dai conflitti, dalle ingiustizie, dalle ricchezze di pochi magnati e le estremità di moltitudini di poveri diffusi ovunque nelle nazioni della terra.
In questi giorni tante volte pensando al Papa defunto e a quello che gli sarebbe succeduto i tanti opinionisti hanno sostenuto la necessità di una continuità nel magistero del suo successore. Sia riferendosi allo scenario drammatico del mondo, sia rilanciando le questioni ancora irrisolte come il sacerdozio femminile e degli uomini sposati, l’ammissione dei divorziati risposati e delle coppie omosessuali trascurando il fatto che Francesco su queste materie, pur avendo fatto intravedere qualche possibilità di apertura, in realtà ha mantenuto lo status quo ante. Insomma per tornare al presente, abbiamo assistito in alcuni casi ai media che dettavano l’agenda del futuro Papa in nome probabilmente di una concezione del pontificato ineluttabilmente destinato ad assecondare le esigenze di una società intesa nel suo sviluppo a senso unico. E c’è da chiedersi allora quale sarebbe adesso la continuità con Papa Francesco.
Ma tanti – forse per questo – hanno anche riflettuto sulla storia del papato antico e moderno; cioè a quell’intreccio tra vecchio e nuovo che si è sempre ripresentato e che però non ha mai intaccato la vera continuità del papato che non si misura sull’agenda delle contingenze del momento, ma in altro modo e cioè nella forza della successione apostolica ininterrotta da duemila anni. In altre parole sulla forza dello Spirito che sempre soffia sulla storia. Insomma c’è una continuità concepita dagli uomini ed una continuità che risponde ad un criterio trascendente le nostre intelligenze e le nostre attese. In definitiva una continuità che provvidenzialmente si perpetua anche nell’imprevedibilità dei disegni divini. Ad esempio ci fu continuità tra Pio XII e Giovanni XXIII da tutti amatissimo più del primo? La risposta immediata è no, eppure l’autorità apostolica si trasmise intatta dall’uno all’altro. Così come avvenne tra papa Roncalli e Paolo VI che agli occhi dei contemporanei – sicuramente per la diversità del carattere – apparve come il Papa che volle frenare gli entusiasmi conciliari e che, invece, è stato il Papa che più di qualunque altro ha riformato la Chiesa anche dovendo subire il “dissenso” di alcuni gruppi e associazioni, ma soprattutto gli effetti di una secolarizzazione indifferente alle sue riforme.
E del resto l’avvento di Wojtyla non fu visto, soprattutto dall’intellighentia cattolica, come una clamorosa discontinuità non solo dai predecessori, ma anche con lo stesso Concilio Vaticano II? Eppure i maggiori quotidiani e gli opinionisti più ascoltati dopo la caduta dei regimi comunisti dell’Est non esitarono a chiamarlo il nuovo Mosè. Per arrivare infine a Francesco che, pur sostenendo di essere in continuità con i predecessori, in realtà ha inaugurato una stagione affatto nuova della Chiesa da lui definita “in uscita” con la missione propria di costruire “ponti” ed “abbattere i muri”. Discontinuità? Certo. Eppure il suo pontificato e la sua morte hanno avuto sempre quei caratteri dell’apostolicità segno di una continuità che ha sede non nelle contingenze del mondo, ma nella dimensione trascendente della Spirito e della sua libertà per noi spesso inconoscibile, ma non oscura.
L’elezione di Leone XIV è in questa logica per noi difficile da decrittare. Tutti si aspettavano Francesco II e, invece, è arrivato Robert Prevost con un nome che ha punteggiato per molti secoli la storia della Chiesa. Ma questo non basta a chi vuole condizionare la libertà del nuovo eletto di confermare nella fede i fratelli e leggere la storia nella quale sono immersi. Comunque come gli altri Papi anche Leone sarà insieme in discontinuità e il suo contrario nell’intreccio tra mondano e spirituale che è il terreno che da due millenni accoglie l’opzione cristiana sul mondo in quella dimensione di libertà che lo Spirito dimostra sempre di avere.
Ed è la seconda e per adesso ultima emozione che in questi giorni la Chiesa ha offerto all’umanità.