Raccontava la sorella di Riccardo Misasi che invitare a casa Ciriaco De Mita era sempre un problema. De Mita e Misasi si erano conosciuti a Milano, all’Università Cattolica, ed erano diventati subito amici. Così, se a casa Misasi si dava una festa, va da sé che De Mita era fra gli invitati. Il fatto è che queste feste servivano anche, in quell’Italia ormai lontana, a far conoscere fra loro ragazzi e ragazze, e poi magari chissà. Ma quando arrivava De Mita, racconta la sorella di Misasi, e cominciava a parlare – di politica è ovvio – i ragazzi invece di fare la corte alle ragazze si mettevano ad ascoltarlo.
Questa capacità di fascinazione era una caratteristica tutta sua. All’università, si riunivano a discutere nella stanza da studenti di uno di loro lui, Gerardo Bianco, Biagio Agnes, Giovanni Di Capua, Misasi, gli amici di una vita, fra alterne vicende, insieme con Nicola Mancino, Antonio Aurigemma, altri ancora … Anche in collegio, quando De Mita parlava gli altri restavano affascinati ad ascoltare. Giovanni Di Capua raccontava così quegli incontri: “Adesso apriamo la finestra e De Mita vola”.
I ragionamenti di De Mita erano una forma di pedagogia politica. Non era semplice seguirli, per questo li accompagnava con certe immagini, del medico, del nonno, tratte da un mondo fantastico popolare che aiutava a comprendere. Citava don Lorenzo Milani: “quando si sceglie insieme si fa politica, quando si sceglie da soli si è egoisti”. E’ il principio del processo democratico tante volte richiamato da Aldo Moro, altro suo costante riferimento: la democrazia intesa come “il tempo della decisione”, il tempo necessario a spiegare, convincere, e dunque a scegliere insieme, recuperando il senso classico della saggezza romana: “quod omnes tangit, ab omnibus approbari debet”. Sta qui il senso di quegli interminabili incontri tenuti con la base del partito in tutta Italia, alla ricerca di una consapevolezza comune.
Citava don Luigi Sturzo, De Mita: durante tutto il tempo della segreteria politica dal maggio 1982 al febbraio 1989 e sempre nella sua vita, è stato grande sostenitore del popolarismo sturziano, con il suo carico di ispirazione cristiana da tradurre nella sfera politica. L’ispirazione cristiana come mediazione fra cielo e terra, fra amore divino e giustizia umana, tra fede e ragione, solidarietà e interesse, fra il senso ultimo del destino dell’uomo e i conflitti legati all’esistenza quotidiana. La sfida di raggiungere l’impossibile della politica attraverso quell’altro impossibile proprio di un politico cattolico: la fede in Dio. Se perdiamo questo collegamento con l’identità cattolica, diceva, la Democrazia cristiana diventa inutile.
Spiegava così De Mita il suo cercare di immedesimarsi nella realtà del Paese: “Non basta capire da soli. Il problema è che la nostra comprensione diventi il fatto, il sentimento della gente. Noi vinciamo, spieghiamo, dimostriamo che la nostra intuizione è giusta, che la nostra missione funziona, quando la nostra idea, la nostra motivazione si traduce nel sentimento delle persone. Sturzo aveva pensato tutto questo con straordinaria lungimiranza prima ancora di fare il Partito popolare”.
Uno dei riferimenti culturali iniziali di De Mita – con Antonio Rosmini, Guido Dorso, Piero Gobetti, Antonio Gramsci – era stato Guido De Ruggero con la sua Storia del liberalismo europeo. Lo affascinava il grande affresco tracciato da De Ruggero sui modi nei quali il liberalismo si fosse sviluppato nei Paesi europei, con quali differenze legate ai diversi vissuti storici dei Paesi nei rapporti fra aristocrazia, borghesia e monarchia. Quella lettura era il suo grande salto culturale dal contesto sapienziale, ma anche ingenuo della piccola realtà montanara dalla quale proveniva, la Nusco a mille metri d’altezza in provincia di Avellino dove era nato il 2 febbraio 1928, alla comprensione del più vasto mondo intorno a lui.
Era quanto gli aveva preparato il destino, lui figlio di don Peppino, modesto sarto e portalettere di Nusco. Il suo ascensore sociale fu azionato dal parroco del paese. “Don Peppino – disse questo sacerdote al padre – tuo figlio è troppo intelligente, deve continuare a studiare, lo aiuterò io”. Fu così che De Mita prese da privatista la licenza liceale, ed ebbe poi la borsa di studio per frequentare l’Università Cattolica a Milano.
I suoi professori l0 avrebbero voluto assistente universitario, ma lui una volta laureato in giurisprudenza tornò nella sua terra, il suo orizzonte era la politica. Oltre De Ruggero, un altro riferimento culturale intorno a cui ruotò questa predisposizione fu L’ordinamento giuridico di Santi Romano. Mutuò da Santi Romano l’idea, che è stata poi un’altra costante della sua visione politica, dei partiti come “istituzioni della democrazia”, nella pienezza della scarna, ma altrettanto incisiva indicazione dell’articolo 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Questi riferimenti culturali trovarono il loro compimento nel popolarismo di Sturzo, che diventa il suo popolarismo. De Mita lo ricordava nell’ultima conversazione politica avuta con lui nel febbraio del 2022, tre mesi prima della morte il 26 maggio, pubblicata a cura di Andrea Manzella e del sottoscritto nel fascicolo di luglio-settembre 2023 di Nuova Antologia: “Io penso di avere svolto una funzione da frate predicatore, perché è un peccato non ricordarlo: non c’è altro pensiero politico più vivo del popolarismo, ma come momento della politica, non la sua fine. Può arricchirsi o modificarsi: e se si modifica vuol dire che il pensiero va avanti. Diversamente, presto o tardi noi annulliamo tutto e non si sa che cosa possa succedere. Perciò ripeto da tempo che la vera novità che può essere introdotta nella politica italiana è rifare il pensiero dei popolari come Sturzo ha insegnato. Lo spirito politico è fatto così, di umiltà e di grande ambizione …”.
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