De Rosa ricordava che la politica per Sturzo esigeva il senso del divino

In una conversazione raccolta nel volumetto “Dove corrono i Popolari” (Brescia, 1997), lo storico Gabriele De Rosa forniva una nota di ottimismo sul futuro del popolarismo. Di seguito la parte finale dell’intervista.

Lino Duilio

 

[…]

Professore, lei è il massimo studioso di Sturzo nel nostro Paese. Don Luigi Sturzo, in un contesto molto diverso, con il popolarismo ha declinato in termini assolutamente laici il pensiero politico cattolico. Ma è ancora attuale il discorso sturziano?

 

La maggior parte dei testi di Sturzo, a parte quelli legati al suo tempo, per esempio la questione agraria, le polemiche sul latifondo, tutti questi aspetti sono datati, però ci sono le pagine di Sturzo che riguardano la politica nella sua essenza, nella sua fondatezza.

Non è vero che Sturzo secolarizzi integralmente la politica.

Quando lui dice, d’accordo con il discorso di Pio XI, che la politica è un aspetto della carità, ha detto tutto. Perchè la carità non è una cosa che si annuncia con lo squillo di tromba: o la vivi o non c’è.

È cosa talmente complessa e allo stesso tempo così difficile da vivere e da applicarsi che essa non ha bisogno di pubblicità, non ha bisogno di essere ricordata. Le parole più o meno annunciate, cantate, ritualizzate, l’offendono e la costringono a nascondersi.

Questo è quanto dice Sturzo. C’è un suo testo bellissimo in cui afferma che se non si avverte “il senso del divino” nella politica, “tutto si deturpa”, la politica diviene allora ben altro, mezzo di arricchimento, corsa al potere, alla occupazione dei luoghi strategici della gestione pubblica, tecnica da apparati.

 

Possiamo dunque affermare che il grande contributo che il popolarismo può ancora dare al nostro Paese e alla politica più in generale è recuperare un’anima alla stessa politica, recuperare una dimensione che va al di là della contingenza materialistica?

 

Sottoscrivo. Uno stile di vita e di contenuti. Una grande politica virtuosa.

 

Tempo fa sulla terza pagina de “La Stampa” è stata pubblicata un’intervista ad Edgard Morin, lo studioso francese, il quale ha detto: è vero che questo secolo è stato il secolo dei partiti, mentre il secolo scorso è stato il secolo dei parlamenti e il prossimo sarà quello delle opinioni pubbliche; il prossimo secolo, però, dovrà essere anche il secolo della poesia, rispetto al 900 che è stato troppo il secolo della prosa. Cioè la poesia, come dimensione che pervade e attraversa le sfere dell’agire, dovrà conquistare anche la politica. In modo forse diverso, Morin dice la stessa cosa, cioè che il futuro della politica dovrà essere costruito recuperando un’anima alla politica. Condivide questa affermazione?

 

La condivido nel senso che la politica ha bisogno di qualcosa, nel suo fondo, che non è politica. Del resto, Morin non è il solo che chiede il soccorso della poesia. Lo chiede anche un filosofo come Hans-Georg Gadamer, quando scrive: “Io attendo con ansia il momento in cui la gioventù ritroverà il senso della poesia”.

 

Il popolarismo, come fatto culturale e politico, può dunque avere ancora un futuro nella storia del nostro Paese?

 

Sì. Potrà avere un futuro rivisitando le vaste distese e i palazzi della memoria, di cui abbiamo detto agli inizi della nostra conversazione.

Noi non possiamo eliminare questa nostra memoria che è la vita nostra e che ci porteremo anche nell’aldilà. Di questo abbiamo bisogno: di una memoria certamente selettiva, ma che nasce dal profondo della nostra anima.

 

In conclusione, professore, noi abbiamo bisogno di memoria e, credo, di speranza. Volendo chiudere questa conversazione con una parola di speranza, un maestro come lei cosa può dire?

 

Io posso dire che la speranza è già in cammino.