Tutti sanno che il governo Meloni è impegnato, come nessun altro governo precedente, nella riforma della giustizia e in particolare dell’ordine giudiziario con la cosiddetta separazione delle carriere. Un altro punto forte della riforma è la costruzione di un organo disciplinare che sia esterno al CSM e sia regolato su basi nuove. Stiamo perciò attraversando come sistema paese un momento ricco di acuti contrasti, di ipotesi di comportamenti che sottendono intenzioni giudicate eversive dagli avversari, di scambi di accuse di voler manomettere la costituzione quale bene supremo della nostra comunità nazionale. Tutti hanno potuto vedere in televisione la manifestazione nazionale per la quale ha preso forma un evento senza precedenti, i magistrati che escono in blocco dall’aula dove si sta tenendo la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario nei diversi palazzi di giustizia dei principali capoluoghi italiani. Le ragioni vere della aspra contesa sono demandate più che altro al sospetto e all’illazione. La principale di queste è che il potere politico centrale sarebbe intenzionato, seguendo la propria vocazione autoritaria, a ricondurre sotto di sé il potere giudiziario abolendo di fatto l’autonomia della magistratura.
Se pensiamo che già in Assemblea costituente Piero Calamandrei dovette ritirarsi sconfitto di fronte ad alcuni magistrati che, pur non essendo stati eletti o avendo qualsiasi altro titolo a intervenire nei lavori dei costituenti, svolgevano uno specifico ruolo di tutela degli interessi della “classe giudiziaria”, ovvero di quelli che essi ritenevano essere tali (la questione allora era l’unicità della giurisdizione), il fatto la dice lunga sulla storicità delle sensibilità acute che si vanno a incontrare (da ottant’anni) quando si parla di riforma dell’ordine giudiziario. È appena il caso di ricordare che l’esplosione del caso Palamara avrebbe dovuto provocare sconquassi o riforme: che invece non si sono minimamente avviate, come nulla fosse stato. Non si contano ai nostri giorni gli interventi di accusa per responsabilità penali a carico di esponenti del governo. In un clima di toni così accesi e di attacchi clamorosi, giustificati o meno, non sembrano esserci i presupposti di una disamina serena dei pro e contro del disegno di riforma della funzione giudiziaria: dove in effetti qualsiasi aspetto venga ripensato di una funzione giustamente definita nella Costituzione diventa delicatissimo, pieno di implicazioni complesse e non facili da risolvere.
In questo quadro è da salutare con vero sollievo l’iniziativa della Associazione Vittorio Bachelet e dal suo presidente prof. Renato Balduzzi tenutasi nella sala conferenze del CSM a Palazzo dei Marescialli, dove si sono discussi gli aspetti della possibile istituzione dell’Alta corte disciplinare, da rendere possibilmente esterna e autonoma rispetto al CSM nel quadro del disegno di riforma.
Intanto i nomi degli intervenuti sono tutti di grande prestigio e autorevolezza; tutti hanno mantenuto un atteggiamento, potremmo dire, scientifico, critico, di contributo serio e lodevolmente dubitativo, frutto di antica milizia professionale (tranne rare eccezioni: “chi mi conosce, già sa come la penso” è stato detto da qualcuno che meritoriamente non ha voluto turbare il clima estremamente costruttivo). La chiave di volta è appunto la grande ‘professionalità’ degli interventi, senza ombra di polemiche. ‘Als Beruf’, direbbe Max Weber. L’Associazione Bachelet si è assunta il compito di ricordare le cose che si possono e si debbono fare, è stato detto. Così è stato. Infatti, tra chi ha preso la parola, oltre al prof. Renato Balduzzi, membro del CSM e coordinatore dell’incontro e presidente dell’Associazione Vittorio Bachelet, che è ordinario di diritto costituzionale alla Cattolica di Milano e già ministro della Salute e già presidente naziondale del MEIC, l’associazione dei laureati cattolici fondata da Giovanni Battista Montini, Igino Righetti e Sergio Paronetto nel 1932, troviamo una sorta di almanacco di Gotha dei giuristi e dei magistrati che non deve essere stato affatto facile mettere insieme: Fabio Pinelli, vicepresidente CSM; Luigi Salvato, procuratore generale presso la Corte di Cassazione; Francesca Biondi, ordinaria di diritto costituzionale alla Statale di Milano, Luciano Violante, già magistrato, già parlamentare e presidente della Camera; Nicolò Zanon, ordinario di diritto costituzionale e già vicepresidente della Corte costituzionale; Edmondo Bruti Liberati, già presidente dell’ANM; Giovanni Maria Flick, avvocato, già ministro della Giustizia e presidente della Corte Costituzionale; Margherita Cassano, primo presidente della Corte di cassazione (carica per la prima volta assunta da una donna), Federico Sorrentino, costituzionalista emerito della Sapienza. Ad essi si è unito anche Giovanni Bachelet, figlio di Vittorio, il quale, per quanto sia un fisico di riconosciuto valore internazionale, ha sempre tenuto fede a un proprio impegno civile che lo ha portato a essere attento osservatore della vita sociale e dei rapporti tra giustizia e società. Sono apparsi tutti assai impegnati a testimoniare disponibilità personale nella ricerca delle migliori formulazioni possibili.
Cosa ne è scaturito, da un incontro così? Intanto, una sorta di rassegnazione che la riforma si farà. Niente proclami di guerra a oltranza, dunque. E, a questo punto, concordia generale sul fatto che occorre farla il meno peggio possibile. Questa è stata esplicitamente enunciata come la preoccupazione principale dell’Associazione Bachelet. Molti degli intervenuti sono tra l’altro studiosi dei sistemi in vigore nei vari paesi europei. (Lo stesso Balduzzi è un comparatista). Che esistono tesi divergenti o inconciliabili si sapeva; ma esse, in un confronto che è stato anzitutto culturale, non sono sembrate ispirate a un ‘mors tua vita mea’, quanto piuttosto a evitare che, nella foga di fare, si rinunci ad evitare adeguatamente gli inconvenienti, cui dopo sia difficile mettere riparo.
Tutti si sono ritrovati d’accordo su un termine: siccome ciascuna delle professioni aventi un albo e un ordine nel caso di inchieste disciplinari prevede di essere sottoposti a un giudizio interno esercitato da professionisti del medesimo ordine (ben comprensibile nel caso, ad esempio, di medici), allora anche per i magistrati deve essere così. Non è affatto la stessa cosa. Anche se è certissimo che rendersi conto delle circostanze e dello specifico problema può essere portato avanti solo da un altro magistrato dotato di lunga esperienza. Tuttavia, appare necessaria l’aggiunta qualificata di un’altra e diversa esperienza, oltre a un assortimento tra requirente e giudicante. Qui, senza entrare nel merito, la presidente Cassano ha lamentato, insistendovi molto, un crescente deficit culturale, che occorre contrastare con urgenza. Si è interrogata, infatti, sul significato della parola ‘legge’: dovendo servirla e applicarla traendone la necessaria ispirazione, occorre riandare alla definizione base. (E poi la stessa cosa va fatta non solo con la parola legge). Combinando le due cose e i due approcci, dovrebbe essere possibile trovare una soluzione.