Difesa comune, prospettiva o miraggio dell’Europa?

Una Difesa unica europea presuppone una politica estera comune. C’è di più. Non può che comportare l’unificazione delle strutture decisionali, dei finanziamenti e di tutto l’apparato che ruota intorno alle Forze Armate.

Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina il tema della possibile realizzazione di un sistema militare di difesa comune dei paesi UE è divenuto d’attualità. Nel senso che se ne scrive sui giornali, se ne parla (talvolta) nei talk show e naturalmente se ne occupa più intensamente quella ristretta schiera di politici e di analisti internazionali che da sempre ne fanno oggetto delle proprie riflessioni. La questione è divenuta più nota al grosso pubblico dopo le recenti esternazioni di Donald Trump circa il possibile ritiro degli USA dall’Alleanza Atlantica nel malaugurato caso costui dovesse tornare, l’anno prossimo, alla Casa Bianca. Per parte sua la Presidente della Commissione Europea, Ursula von Der Leyen, in cerca di una ricandidatura ha posto il tema in cima alle priorità da affrontare, come aveva fatto cinque anni fa con la lotta al cambiamento climatico.

Oltre i discorsi, al solito, non c’è nulla. In attesa di conoscere gli esiti elettorali di giugno, per i quali si teme un risultato nell’insieme non così positivo per gli europeisti o tale da poter consentire una forte iniziativa in senso unionista. Si vedrà. Due o tre punti fermi sull’argomento, ad ogni modo, li si può elencare in termini oggettivi in quanto plasticamente evidenti e dunque evasi solo da quanti in materia assumono atteggiamenti, favorevoli o più spesso contrari, di natura ideologica e quindi fuorvianti.

Innanzitutto, e con questo punto si potrebbe anche chiudere subito il discorso, una Difesa unica europea presuppone una politica estera comune, che a sua volta deriva da una comune volontà politica sorta presso il corpo elettorale continentale, dunque rappresentata nel Parlamento Europeo e poi implementata da un governo dell’Unione non succube – come oggi è la Commissione – dei governi nazionali. Ovvero, senza unione politica e istituzionale non c’è difesa unica. Quindi già sappiamo che tutti i partiti nazionalisti o sovranisti che dir si voglia e tutti i governi da questi ultimi diretti o influenzati sono e saranno contrari a una ipotesi del genere, anche nel caso di una presidenza statunitense ostile (che peraltro alcuni di essi auspicano).

Secondariamente, gli interessi economici dei grandi gruppi industriali che operano nel settore militare sono talmente forti (e in crescita, dato l’aumento esponenziale del business derivato dal clima guerresco instauratosi nel mondo in questi ultimi due anni) che i governi nazionali si sentono in dovere di proteggerli e garantirli. I campioni europei del settore, ad esempio, restano in accesa competizione fra loro per aggiudicarsi le sempre più numerose e ricche commesse internazionali: i francesi Airbus, Thales, Safran e l’italiano Leonardo ai quali si aggiungono i britannici (fuori dalla UE ma pur sempre europei) Bae Systems e Rolls Royce.

Poi c’è la questione più strettamente militare. Ogni Paese membro ha le proprie Forze Armate e vuole preservarne l’autonomia. I primi a volerla mantenere sono ovviamente i militari stessi: 27 eserciti e 27 catene di comando garantiscono posizioni di prestigio e di potere che verrebbero di molto ridotte nel numero da un comando unificato. Perché Difesa unica significa unificazione delle strutture decisionali, dei finanziamenti e di tutto l’apparato che ruota intorno alle Forze Armate.

E dunque ci vorrebbe una forte volontà politica, sostenuta dal consenso popolare, per anche solo affrontare in maniera efficace la questione. Cosa che oggi non c’è. Purtroppo, occorre aggiungere. E non solo perché priva di una politica estera comune e di una conseguente difesa comune l’UE rimane a livello planetario un modesto attore politico, come si vede in ogni circostanza. Anche per ragioni freddamente economiche.

Quella che l’ex ministro Cingolani, ora AD di Leonardo, ha definito in una recente intervista al Financial Times “segmentazione industriale” genera duplicazioni e impedisce sinergie che produrrebbero efficienze tali da rendere molto efficaci – molto più di quanti sono oggi, così frammentati – i soldi investiti complessivamente nel settore degli Stati nazionali.

Senza voler qui entrare nei dettagli basti dire che la spesa complessiva dei 27 per i loro apparati militari è intorno ai 230 miliardi di dollari, poco meno di quella cinese, oltre tre volte di più di quella russa (che pure è in crescita esponenziale) e certo inferiore (di altre tre volte) a quella americana: il problema però è che è frazionata e quindi poco efficiente, duplicativa invece che sinergica. Un solo esempio: gli Stati Uniti hanno un solo modello di carro armato, gli europei ben venti! Hanno due modelli di veicoli da combattimento della fanteria, gli europei ben diciassette. E si potrebbe continuare, citando dati relativi alla marina piuttosto che all’aereonautica. Utilissimo, a tal fine, consultare il sito dell’Istituto Internazionale per le Ricerche sulla Pace, di Stoccolma (www.sipri.org).

È evidente che eliminazione dei doppioni, diminuzione degli sprechi, unificazione della ricerca, centralizzazione degli acquisti sarebbero tutti interventi naturali per una Forza Armata Europea, che potrebbe – con gli attuali impegni di spesa – raggiungere elevati livelli di efficienza e un conseguente alto livello di capacità difensiva.

Ma qui tutto si ferma, perché non c’è, ancora, quella volontà politica necessaria per tradurre in scelte operative quella consapevolezza che ormai dovrebbe essere abbastanza acquisita, ovvero che nell’attuale contesto internazionale gli Stati dell’Unione dovrebbero ragionare su scala europea e non più razionale. Per intanto il punto più alto di questa presunta consapevolezza ha prodotto il piano per migliorare l’efficienza del sistema, in attesa di una più ambiziosa e annunciata European Defence Industrial Strategy. Lo ha elaborato Thierry Breton, il commissario UE al mercato interno, e prevede un sistema centralizzato per la gestione degli acquisti (e delle vendite ai paesi terzi, perché naturalmente si invoca la pace ma poi si guarda al business, as usual): meglio che niente, ma un po’ poco, francamente.

Ora il rapporto Letta, “Much more than a market”, discusso ieri al Consiglio Europeo, rilancia: “è indispensabile un mercato comune per l’industria della sicurezza e della difesa”. Vedremo se come tanti altri, ironizza l’estensore, “finirà in un cassetto”. Vista la situazione, il rischio è alto.