La crescita delle moderne democrazie, iniziata nel periodo successivo alla fine della seconda guerra mondiale si è accompagnata all’evoluzione dei sistemi scolastici nazionali: già allora c’era l’esigenza di conservare la remota eredità ricevuta dalla tradizione e da essa partire per aprirsi all’innovazione e alla necessità di restare agganciati alle dinamiche di una società in rapida e profonda trasformazione. L’alfabetizzazione di massa fu per tutti il primo postulato da assolvere: essa conteneva un’urgenza quantitativa, di estensione degli apprendimenti strumentali del leggere, dello scrivere e del far di conto e una prospettiva qualitativa, di affinamento dei saperi, di correlazione tra istruzione e mondo del lavoro, tra educazione e crescita della persona nella sua dimensione identitaria e relazionale.
Questa deriva la possiamo cogliere come processo di modernizzazione trasversale ai sistemi scolastici dei Paesi usciti dal conflitto bellico, pur tenendo conto di condizioni di differenziato, potenziale sviluppo. La scuola era un’istituzione da definire in modo funzionale alla crescita economica tumultuosa, al traguardo di un recuperato ed esteso benessere: era lo zoccolo duro del progresso civile che riguardava ogni singolo soggetto e l’intero corpo sociale. Fu per tutti un incedere laborioso ma pervaso da fermenti e aneliti di libertà e di emancipazione, l’osservatorio ideale per guardare al futuro partendo dalla cultura, cioè il contesto di maggiori potenzialità affinchè il graduale raggiungimento dei livelli più elevati di studio fosse la gratificazione di un impegno personale soddisfatto e un mattone portato alla costruzione del bene comune, nell’interesse della comunità.
Implicitamente il tema del diritto allo studio sancito dall’art. 34 della Costituzione prendeva sostanza e consapevolezza, come passaggio obbligato per realizzare e ottimizzare le potenzialità di ciascuno, in modo che nessuno fosse escluso dalla conoscenza e dall’apprendimento come fattori di crescita e realizzazione, al punto da rendere obbligatorio l’iniziale curricolo di studi di otto anni in modo gratuito e aperto a tutti i ceti sociali. In quelle parole usate dai padri costituenti stava l’intuizione dell’istruzione come ascensore sociale: termine oggi usato di converso per significare nuove difficoltà ad utilizzare la scolarizzazione come motore per salire i piani sociali più alti. Inizialmente garantire il diritto allo studio si traduceva nell’offrire uguali opportunità di accesso per tutti, si comprese poi che questo non era sufficiente perché era necessario accompagnare ciascun alunno lungo il percorso scolastico per garantire uguali opportunità di riuscita.
Abbandono scolastico, ripetenze, dispersione scolastica, ineguali condizioni sociali di provenienza vanificavano come non esaustiva l’uguaglianza delle condizioni di partenza per tutti: troppe difficoltà si frapponevano strada facendo. Negli anni settanta questo tema fu davvero cruciale con la consapevolezza che era il curricolo scolastico (nei programmi, nei metodi, degli interventi di sussidiarietà) che doveva modularsi alle esigenze e alle diverse potenzialità di ciascun alunno, non viceversa. Concetti come l’individualizzazione dell’insegnamento, la flessibilità didattica dei contesti di accoglienza, l’inserimento e poi l’integrazione degli alunni con disabilità (affinchè non fossero esclusi dalla scolarizzazione) ampliatosi poi nel grande alveo dei bisogni educativi speciali derivanti dai disturbi specifici di apprendimento, hanno via via reso la scuola un ambito istituzionale ed umano di accoglienza e non di esclusione.
La legge 517/1977 – ne cito una sola – fu un monumento al diritto allo studio, tuttora ineguagliata quanto a potenza di significati, visione olistica, innovazione didattica. Ed è pur vero che questa deriva, nel suo ampliarsi e confondersi con la semplificazione culturale, aveva introdotto una certa demagogica tendenza a facilitare, abbassando piani ed altezze della cultura. Il dibattito sulla valutazione, la criminalizzazione dei voti, l’omologazione dei giudizi su clichè stereotipati e indulgenti, la distorsione del concetto di diritto che portava ben presto al ‘tutto è dovuto’, (ricordo che i ricorsi al TAR sulle bocciature venivano largamente vinti perché il giudice amministrativo si orientava a considerare non completi o esaustivi i tentativi esperiti della scuola a percorrere processi di marcata individualizzazione nei metodi di insegnamento) introdussero una mentalità prevalente rispetto al dovere di applicarsi nello studio con abnegazione e impegno.
Molto del prestigio sociale che scuola e docenti hanno perduto strada facendo e che ha portato a parossismi inaccettabili (tanto da far dire a più di uno che sarebbe meglio che i genitori si impicciassero meno nelle competenze professionali degli insegnanti) è dovuto ad un clima rivendicativo nuovo che ha frainteso il concetto di diritto allo studio e lo ha trasformato in pretesa delle promozioni automatiche, all’uso dei social come strumento di controllo del lavoro scolastico, fino al linciaggio di insegnanti e dirigenti scolastici e si tratta del venir meno del rispetto dovuto alle persone e alle istituzioni, più o meno come sta accadendo negli ospedali per le professioni sanitarie. L’idea dell’uno vale l’altro e l’omologazione della valutazione dei risultati hanno negli ultimi anni portato ad un appiattimento culturale e ad un impoverimento formativo che non sono neanche lontani parenti del diritto allo studio sancito dalla Costituzione e legittimato dalla normativa applicativa.
È accaduto a poco a poco che le eccellenze, le qualità, le doti e i talenti diventassero peccati di lesa maestà verso la cd. “scuola democratica” mentre il livellamento e l’omologazione verso il basso finissero per tarpare le ali dell’intelligenza, della creatività, dello zelo dei capaci e meritevoli. Questo spiega, ma solo in parte, perché reattivamente si sia cominciato a parlare di ‘merito’: lo ha fatto per se stessa la politica ma in modo distorto, senza criteri oggettivi, e la tendenza si è estesa ai pubblici servizi di cui la scuola è parte esponenziale. Il fenomeno del brain drain – la fuga dei cervelli all’estero ha riguardato sia i livelli di qualità formativa che gli sbocchi occupazionali: dove il merito viene conculcato in un limbo sociale in cui è difficile rintracciarlo. ‘Merito’ non è solo dote intellettuale ma reca con sé una valenza etica perchè lo studio richiede impegno, applicazione e sacrificio per conseguire competenze nell’organizzare il pensiero, la capacità di esprimersi e farsi capire, il fare e il saper fare. “I capaci e meritevoli anche se privi di mezzi hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.
In questo passaggio dell’art 34 della Costituzione sta la sintesi del diritto allo studio in una scuola aperta a tutti e il compito che lo Stato deve assumere per valorizzare le eccellenze: forse per troppo tempo ci si è concentrati sulla prima parte dell’enunciato dimenticando che la valorizzazione dei talenti ne è il completamento.