«Un prete lungo e tutto ossa, col viso scavato, con gli occhi pallidi sotto la fronte alta a picco come una roccia, senza labbra e senza capelli». Un prete che incanta la gente con i suoi sermoni e che parla come un santo: «Le donne piangono nell’ascoltarlo; gli uomini abbandonano l’osteria per andare in chiesa».
Un ritratto letterario e umano
Questa è la descrizione, sublimata letterariamente, di don Primo Mazzolari che Grazia Deledda tratteggia nel suo romanzo Annalena Bilsini, pubblicato nel 1927 e ambientato a Cicognara, nel Cremonese, paese dove a lungo Mazzolari stesso servì come parroco.
Le parole di Deledda sono ora richiamate dallo storico Giorgio Vecchio nel primo volume di una nuova biografia di Mazzolari (Don Primo Mazzolari. Una biografia, I, 1890-1932, Brescia, Morcelliana, 2025, pagine 288, euro 25), che consente di seguire passo dopo passo i primi quarantadue anni di vita di don Primo: dal 1890, quando nacque a Boschetto, nella campagna padana, da una famiglia contadina, al momento dell’addio alla parrocchia di Cicognara, nel 1932. Quarantadue anni cruciali anche per la storia d’Italia.
Gli anni della formazione tra natura, libri e inquietudini
Grazie a una magistrale padronanza degli scritti del prete di Boschetto e del suo imponente lascito archivistico, nonché grazie alla capacità di confrontarsi apertamente con la letteratura critica, Vecchio ci restituisce un ritratto a tutto tondo di Mazzolari, ponendo in evidenza non solo i tratti luminosi della sua figura, ma anche le inquietudini e i tormenti, che lo affannarono fin dalla fanciullezza.
Dall’analisi condotta da Vecchio, Mazzolari appare come un bambino e poi come un giovane uomo serio e riflessivo, incline più alla lettura che ai giochi e ai divertimenti, con un sincero attaccamento alla terra e ai suoi valori. Al rispetto della natura si accompagna in lui il riconoscimento dell’importanza del lavoro e della fatica: «Sono un prete: ma sotto, senza sforzo, potete scorgervi il contadino. Se mi guardate in faccia, mi riconoscete subito per uno dei vostri; se mi stringete la mano, non v’ingannate».
La prima svolta nell’esistenza di Mazzolari avviene con l’ingresso, a partire dal 1902, nel seminario di Cremona. Qui fa incontri che lo segneranno profondamente: il compagno di studi Annibale Carletti, il vescovo Geremia Bonomelli, molto attento alla questione sociale, e il padre barnabita Pietro Gazzola, emarginato a causa delle accuse di modernismo.
Al di là di questi incontri decisivi e illuminanti, sono — quelli del seminario — anni di solitudine e di insofferenza verso le regole, segnati dal dissidio interiore tra il cuore e la ragione.
Dal fronte alla parrocchia: il seme del pacifismo
Dopo l’ordinazione, nell’agosto 1912, Mazzolari viene assegnato alla parrocchia di Spinadesco, un paesino alla confluenza tra l’Adda e il Po; l’anno successivo viene quindi richiamato come insegnante di lettere nel seminario di Cremona.
In questo periodo Mazzolari si lega a Eligio Cacciaguerra, fondatore della Lega democratica cristiana italiana, e, anche grazie alla sua mediazione, riesce a costruire una fitta rete di amicizie, molte delle quali femminili: da Marianna Montale, sorella di Eugenio, a Sofia Rebuschini, da Antonietta Giacomelli a Carla Cadorna, figlia del generale Luigi, fino a Teresa Mattei. Con loro discute di fede e religiosità, ma anche del ruolo delle donne in una società in piena trasformazione.
I venti di guerra, però, soffiano sempre più impetuosi. Dall’iniziale neutralismo, evidentemente influenzato dal giudizio di Benedetto XV sull’«inutile strage», Mazzolari si sposta nel campo dell’interventismo democratico: il conflitto è da lui considerato un dovere patriottico, un passo necessario per il completamento del processo di unificazione; tutte le rivendicazioni nazionalistiche e imperialistiche sono invece rifiutate.
Sulla base di queste convinzioni, che sono il frutto della sua formazione risorgimentale, decide di arruolarsi. Presto, però, subentra il disincanto, su cui incide sia la tragica morte del fratello minore Giuseppe (“Peppino”), durante la quarta battaglia dell’Isonzo, sia l’esacerbarsi del conflitto. Una violenza che don Primo può osservare direttamente, avendo richiesto di essere inviato al fronte, a seguito dell’esercito italiano.
È qui, nelle trincee, dinanzi ai corpi straziati dei soldati rimasti insepolti, che si forma quel pacifismo destinato ad affermarsi come uno dei tratti essenziali del suo pensiero: «Vogliamo che la libertà regni sovrana tra i popoli grandi e piccoli. Vogliamo che nessuno abusi della forza, sia essa d’armi o di ricchezza. Vogliamo l’amore tra i popoli, non l’odio: la pace nella giustizia, non la guerra», proclama in un’omelia del luglio 1918.
Contro la dittatura, fedele alla coscienza
Alla fine della guerra, diviene parroco di Cicognara. In più occasioni invoca una pace giusta, senza atteggiamenti vendicativi verso gli sconfitti. Netta, poi, è la sua condanna della violenza squadristica dei fascisti: parla di «ribollimenti barbarici» e di paganesimo che avanza, nonché di forza del «bastone».
Quando Mussolini prende il potere, arriva a sostenere che, se non fosse cristiano, si farebbe «carbonaro per ridare alla patria la libertà», come scrive in una lettera nel novembre 1922.
Tra i numerosi atti di ostilità verso il regime vi è anche, tre anni più tardi, il rifiuto di intonare il Te Deum, dopo lo sventato attentato a Mussolini da parte di Tito Zaniboni.
Il momento di maggior attrito si verifica, però, nell’agosto 1931, allorché tre colpi di rivoltella vengono sparati da un gruppo di fascisti locali contro don Primo, che dall’attacco esce illeso e nient’affatto fiaccato nello spirito.
Anche in queste circostanze difficili, Mazzolari rimane fedele a due princìpi che gli derivano da un’attenta rimeditazione del concilio tridentino: la centralità della cura delle anime e la rivendicazione del ruolo del prete nella società.
Don Primo Mazzolari — come mostra lo studio di Giorgio Vecchio, di cui attendiamo ora il secondo volume — diviene così un modello esemplare di rettitudine morale e civile di fronte al giogo della dittatura.
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