Dossetti difensore della Costituzione e partigiano del Concilio | Intervista a Luigi Giorgi a cura di Lucio D’Udaldo

“Se esiste un protagonista della storia italiana…è, senza dubbio, Giuseppe Dossetti”. L’incipit del libro spiega perché l’autore ha rivolto la sua attenzione al leader carismatico della sinistra dc anni ‘40-‘50.

Gigi non è un conversatore fluente, di quelli che che ti prendono a braccetto con le parole e ti portano lontano, specie se al centro della chiacchierata possono mettere se stessi. È uomo di scrittura, questo sì; preciso ed essenziale, senza molta retorica; uomo abituato a maneggiare documenti, vecchie carte d’archivio, anche ritagli di giornali scomparsi dalla circolazione. Il suo lavoro, all’Istituto Sturzo, lo porta a indagare innanzi tutto quelle vicende e quei personaggi che hanno segnato il percorso del cattolicesimo politico. C’eravamo incontrati due mesi fa a un convegno nella sede della vecchia Provincia di Roma,  amabilmente ribattezzata Città metropolitana dalla “riforma Delrio”,  e abbiamo provato a discutere durante una pausa dei lavori sul suo ultimo lavoro su Dossetti. In realtà, avevo appena sbirciato le pagine del libro e credevo di poter mettere a segno un’intervista. Invece mi sono ricreduto, ho scelto di prendere tempo e di leggere il testo con attenzione, cercando infine di integrare le parole con lo scritto. Meno spontanea e più meditata, l’intervista non vuole disperdere il carattere di relativa immediatezza.

“Se esiste un protagonista della storia italiana…questo è, senza dubbio, Giuseppe Dossetti”. Il tuo incipit dice già molto del perché hai rivolto nuovamente l’attenzione al leader carismaico di quella sinistra dc cresciuta attorno a lui nell’immediato secondo dopoguerra, dopo che già nel 2005 avevi esaminato il suo contributo alla politica estera italiana.  Dossetti ti affascina.

Non solo me, naturalmente. Dossetti ha lasciato un segno indelebile nella storia della Dc e dell’Italia del secolo scorso e ha dato fino all’ultimo, anche quando dalla scena pubblica mancava da decenni, una testimonianza preziosa del suo attaccamento alla vita civile e politica. Sempre originale, profondo, stimolante: la sua capacità di analisi storica ha accompagnato quella di azione, a volte superandola, senza cancellarne però l’intelligenza di analisi del reale.

Il suo nome è associato a quello di De Gasperi. Hai messo a fuoco la dialettica tra i due, la loro diversità di approccio alla politica. Tuttavia, a scorrere il tuo libro si resta colpiti dalla complessità di sentimenti che non permette di ridurre l’opposizione di Dossetti a questione personale.

De Gasperi faticava a capire Dossetti. Gli sfuggiva la ragione intima – la definisce psicologica – di alcune sue scelte politiche e partitiche. Lo avrebbe voluto al governo, ma non trovò la sua disponibilità. Probabilmente dubitava di poter incidere come avrebbe voluto. Tuttavia, un rapporto così complicato non cancellò il legame fatto di stima e rispetto personale. Alla signora Francesca, moglie di De Gasperi, il 31 dicembre del 1958 scrisse un biglietto per annunciare la sua ordinazione sacerdotale. Usò un’espressione di particolare intensità e delicatezza: “Penso che se il Presidente fosse con noi goderebbe, vedendo così chiarita la mia strada e certo ne goderà dal Paradiso”. Poteva dir di più?

Come mai non ti sei soffermato più di tanto sulla decisione che Dossetti assume negli incontri di agosto e settembre del 1951, nel castello di Rossena, quando comunica la volontà di ritirarsi dalla politica?

È un episodio cruciale nella vita di Dossetti. Se ne è discusso molto, più volte, in varie sedi: è una vicenda troppo nota per essere ulteriormente sviscerata, per altro senza avere elementi aggiuntivi di conoscenza e interpretazione. Che altro dire? Quella scelta rientra nel piano di una vocazione alla vita consacrata che evidentemente matura ed esplode nel periodo di massima esposizione politica. A Rossena si consuma l’idea di un limite intrinseco alla politica e alla Chiesa. Senza una riforma di quest’ultima (il Concilio era ben lungi dall’apparire all’orizzonte) e senza una condizione di agibilità politica per le riforme (la Guerra fredda non autorizzava esperimenti oltre un certo limite di tenuta del sistema), l’azione concepita da Dossetti diventava sempre più complicata. Da qui la rinuncia e la decisione di spostare la sua vicenda dal campo politico, riconoscendo a De Gasperi una continuità costruttiva nella gestione del Paese, verso un più complesso e complessivo spazio di formazione, culturale e storico, e di impegno a favore dei più bisognosi.

La sua “reformatio” svanisce dunque come operazione possibile nel contesto politico degli anni 50. Eppure, su invito del card. Lercaro e poi della Dc, nel 1956 tornerà a impegnarsi nelle elezioni comunali di Bologna.

Lo farà per spirito di obbedienza al card. Lercaro cui riconoscerà una paternità spirituale molto profonda e significativa. Alla Dc chiederà di sottoporre al voto degli iscritti l’indicazione a capolista. In sostanza, inventerà le primarie quando ancora nessuno ne parlava. Perse contro il sindaco uscente, il comunista Dozza, ma fece una campagna elettorale di rara incisività e intelligenza. Il “libro bianco” su Bologna, con il primato assegnato alla partecipazione popolare e l’idea di una riorganizzazione amministrativa basata sul decentramento urbano, formerà un esempio di innovazione democratica. È un metodo nuovo che s’impone, assunto che per Dossetti il metodo è sostanza della politica, ovvero la sua interna forza creativa e propulsiva.

Poi inizia la sua vita religiosa…

Il 6 gennaio 1959 viene ordinato sacerdote. Mi sono soffermato molto su questo aspetto cruciale della sua vicenda terrena…

Anche se, a dispetto di chi ha visto una continuità tra il Dossetti politico e il Dossetti monaco, non hai accennato allipotesi che lesperienza condotta al fianco di Lercaro nei lavori del Concilio lo avesse trasformato in un possibile “papabile”. E nemmeno rimarchi, di conseguenza, l’episodio della mancata successione a Lercaro alla guida della diocesi di Bologna: per questa via, si è detto, l’elezione al soglio poteva essere più che probabile, considerato il prestigio da lui conquistato presso gli ambienti riformatori della Chiesa.

Mi sembra, per quello che è dato sapere, uno scenario che non rientra nella corretta evidenza dell’esame storico. Può darsi che attorno alla sua figura potesse coagularsi un largo consenso negli ambienti più aperti al rinnovamento conciliare. Il card. Suenens, all’epoca riferimento autorevole dell’ala progressista della Chiesa, gli si rivolgerà una volta con una battuta felicemente allusiva: “Ma lei è un partigiano del Concilio”. Certo è che Dossetti non cercava ruoli, coltivando semmai la sua propensione al ritiro e alla meditazione, per essere in grado di capire maggiormente il mondo e andare più in profondità rispetto alle vicende della storia e più vicino alle difficoltà dei poveri. Sta di fatto che si dividerà, dalla “svolta del ‘68” fino tutti agli anni 80, tra Monteveglio e Gerico in Terra Santa, rafforzando la dimensione a lui molto cara del raccoglimento e della preghiera. Sono poco incline a credere che, nel farsi sempre più forte la sua adesione a una prassi di fede non attivistica, lontana perciò dalla contaminazione semi-pelagiana, ci fosse in un angolo riposto della mente l’idea di una chiamata alla guida della barca di Pietro.

Infine, a riprova che l’orizzonte della politica non gli fosse sfuggito nemmeno dopo la scelta propriamente religiosa, ci sono gli anni delle ultime battaglie: a presidio della pace e per il no alla guerra contro l’Iraq, in difesa della Costituzione, contro la “coreografia medicea” rappresentata dal berlusconismo, a sostegno della speranza di uno scatto in avanti dell’Italia, per un nuovo ideale di democrazia…Dunque, Dossetti lascia socchiusa la porta all’impegno politico dei cattolici?

Lo dirà espressamente nell’incontro con la redazione della rivista Baillame, nel 1993: “…nonostante tutto dico: non c’è incompatibilità di principio tra fede e politica. Può accadere che a volte siamo chiamati a fare politica, in una circostanza, in un determinato momento, per un certo breve periodo, episodicamente”. In una fase di emergenza, quando la storia richiede la loro responsabilità, gli uomini di fede hanno il dovere d’impegnarsi. Ciò non toglie che la politica abbia un suo statuto di costante aderenza alla vita associata dell’umanità; che sia pertanto una dimensione nobile o, come ricorda l’insegnamento della Chiesa, una “forma superiore di carità”; che giovi praticarla con serietà e preparazione, senza cedimenti alla demagogia e al populismo, per dirla con le categorie a noi più prossime.

In fondo Dossetti ha un’unica, fondamentale premura, e cioè che l’ansia del fare – e quindi del fare politica – non segni la cancellazione del giusto confine con la fede. In altri termini, e ancora una volta, la sua sollecitazione concerne l’esigenza di purificare i mezzi, oltre che i fini. La politica non deve perdere il carattere della sua laicità.

Luigi Giorgi, Giuseppe Dossetti. La politica come missione”, Carocci, 2023