Sarebbe paradossale che il Parlamento tornasse a dargli la fiducia e lui, forte della rinnovata investitura, dovesse nel giro di pochi mesi trincerarsi nella logica del Cincinnato, abbandonando il campo.
Nella storia delle crisi di governo è accaduto nel passato che alla base delle dimissioni del Presidente del Consiglio ci fosse la registrazione o di un logoramento politico, giunto a livelli insopportabili, o di uno scacco parlamentare, decifrabile in termini di rottura all’interno della maggioranza. Stavolta il voto al Senato ha confermato la fiducia al governo, ma con la contestuale formalizzazione del dissenso del M5S. Draghi pertanto è salito al Quirinale per rassegnare le dimissioni, ma il Capo dello Stato non ha potuto constatare la mancanza di una base parlamentare sufficiente alla prosecuzione dell’attività di governo. Dunque, Mattarella ha ritenuto opportuno respingere le dimissioni, invitando il Presidente del Consiglio a verificare lo stato dei rapporti tra le forze politiche di maggioranza. Non poteva andare oltre, essendo estranea alla condotta del Custode della Costituzione una valutazione strettamente politica. A questo punto la verifica attorno alla coesione della maggioranza passa attraverso il ritorno di Draghi in Parlamento.
Questo è l’aspetto formale della crisi. Nella sostanza, invece, giova riflettere sulle implicazioni della crisi. Il Presidente del Consiglio è stato fermo, e certamente lo sarà anche nei prossimi giorni, nel respingere la pretesa di trasformare la fase conclusiva della legislatura in una fiera delle convenienze e persino delle stravaganze di partito. La crisi, sotto questo punto di vista, è il risultato più aderente alla orgogliosa postura di Draghi, indisponibile a mediare tra continue rivendicazioni finalizzate al proprio tornaconto elettorale. La sua è una sfida che mette a nudo le incongruenze di una politica aggrovigliata su stessa, con alleanze oramai impraticabili a sinistra (PD-M5S) e incomprensibili a destra, vista la separazione tra chi sta al governo (FI e Lega) e chi all’opposizione (FdI). Tutto ciò fa capire quanto sia azzardato, in mancanza di prospettive chiare, il ricorso anticipato alle urne.
Ad ogni buon conto, la difficoltà si ripropone anche nell’auspicata prospettiva del voto a scadenza naturale, ed anzi, in questo caso, con maggiore intensità visto che Draghi ha ribadito più volte di non volersi candidare. Ora, se supera la prova di questi giorni, egli dovrà mettere bene a fuoco il compito che l’attende nel prossimo futuro. Sarebbe paradossale che il Parlamento tornasse a dargli la fiducia e lui, forte della rinnovata investitura, dovesse nel giro di pochi mesi trincerarsi nella logica del Cincinnato, abbandonando il campo. L’Italia non può permetterselo. Certo, salvare la legislatura è importante, se serve a governare il Paese in una fase molto complicata; ma lo sforzo di oggi ha senso se commisurato alle scelte di fondo che gli elettori dovranno consacrare. L’appello alla responsabilità suona come incipit di una politica solida e coerente, proiettata verso nuovi scenari.