Ex Ilva, la politica e le partecipazioni statali: una storia da ripensare.

Per l’acciaieria di Taranto la politica è costretta a pensarsi con la lettera maiuscola e dare un indirizzo che non può spendersi soltanto sporadicamente ma che si traduca in una “visione”.

A volte la politica è costretta a tornare in campo anche se preferisce più spesso restare in panchina e far parlare i tifosi delle opposte sponde su fatti di gioco assai poco significativi. Intanto il tempo passa e la politica si riposa senza rischiare più gravi censure.

Ci sono situazioni che arrivano malgrado tutto ad un capolinea e si è costretti a prendere una decisione che esponga ad un giudizio. Sono cose che si dovrebbero evitare a ridosso, ad esempio, delle elezioni europee ma qualche volta il fato ci mette lo zampino e c’è poco da fare se non fare appunto qualcosa.

Si tratta della sorte dell’ex acciaieria Ilva di Taranto, oggi ArcelorMittal, che come è noto non sta vivendo un momento felice. Si discute di nuovi investimenti, ricapitalizzazioni almeno per volontà dello Stato e di resistenze da parte della partecipazione privata.

La questione è più spinosa dell’episodio in sé. Si dovrebbe una volta e per tutte ridiscutere sull’intervento dello Stato nell’economia con i limiti imposti dall’Europa e su di un possibile ritorno ad un sistema di partecipazioni statali.

In tempi di Prima Repubblica molto si è fatto; poi nei  successivi momenti di crisi dell’economia si è aperta la stagione della moda delle privatizzazioni dove si è affermata la linea per cui era bene lo Stato si spogliasse di alcuni gioielli di famiglia e far cassa, lasciando alla presunta più capace imprenditoria privata l’onere e l’onore della gestione di settori importanti del paese.

Andrebbe ricordato il monito di Andreotti quando osservava che un acquirente è interessato ai pezzi migliori di ciò che è vendita lasciando sul banco le aziende decotte che lo Stato dovrebbe poi continuare a sostenere. L’ex Ilva, come l’Alitalia e l’ITA di oggi, è già costato al contribuente italiano un fiume di denaro e gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. Nel tempo ci hanno guadagnato solo i diversi commissari chiamati a gestire la situazione di crisi pur incapaci di riportare in attivo l’impresa da loro gestita.

La crisi della ex Ilva, oggi con oltre undicimila lavoratori in legittima apprensione, è stata determinata anche da motivi di tutela ambientale. L’inquinamento prodotto dagli altoforni della acciaieria ha avuto un impatto preoccupante sugli abitanti della città con un incremento significativo di morti per cancro ed altre patologie connesse ai fumi che hanno intossicato la città. La situazione attualmente è più o meno identica.

Sarebbe interessante ricostruire però la situazione nella sua origine. Qualcuno rammenta, se avesse ragione, che, all’inizio, l’impianto industriale fu costruito ad una certa distanza dall’abitato, con una fascia di rispetto che lasciava pensare ad un margine di sicurezza. Solo successivamente la crescita disordinata della città ha portato l’abitazione a ridosso della acciaieria incolpevole di essere dov’era.

Se questo rispondesse al vero ricorda un po’ il tema assai più contenuto dell’Aeroporto dell’Urbe a Roma. Da principio costruito in un campo sufficientemente distante dai quartieri abitati è stato incalzato progressivamente da palazzi di ogni tipo fin dentro l’aeroporto stesso anche per mano militare.

Oggi i cittadini di quelle parti lamentano un inquinamento acustico eccessivo e ostacolano ogni ipotesi di un cambio di orientamento della pista che possa consentire un traffico aereo più significativo che tornerebbe assai utile alla città.

È la vecchia storia dell’uovo e della gallina, del prima e del dopo. Sta di fatto che per l’ex Ilva la politica è costretta a pensarsi con la lettera maiuscola e dare un indirizzo che non può spendersi soltanto sporadicamente ma che si traduca in una “visione”. In questi ultimi trent’anni a ragionar così c’è da essere visionari ma in tempi di metaverso e di realtà aumentata non è morta l’ultima speranza.