Evitato, dopo 21 anni consecutivi, l’esercizio provvisorio con l’approvazione della finanziaria 2024, la politica regionale siciliana sembra essersi posta come primo obbiettivo strategico per il nuovo anno l’approvazione della legge di riforma della governance degli “enti di area vasta”. Facendo un duplice salto (mortale?) all’indietro. Ritornando, prima, alle province (com’è noto, con la legge regionale 7/2013 queste ultime erano state abolite e sostituite con i liberi Consorzi comunali) e, poi, all’elezione diretta popolare dei loro organi di governo e di quelli delle città metropolitane che con la legge 15/2015 era stata sostituita dal voto dei sindaci e dei consiglieri comunali in carica. Il tutto giustificato dalla necessità di sanare anche l’ormai insostenibile vulnus democratico causato dallo scandaloso commissariamento, protrattosi per oltre un decennio, degli organi di questi nuovi enti.
La riforma, che in un primo tempo sembrava avrebbe dovuto seguire quella nazionale della “legge Delrio” per evitare la possibilità che venisse impugnata per illegittimità costituzionale da parte del governo a motivo della violazione della medesima legge nazionale autoproclamatasi “grande riforma economico-sociale (art.1, comma 5) e quindi parametro invalicabile per l’osservanza di alcuni principi, ora è perseguita autonomamente, a prescindere dalle scelte nazionali. E ciò perché le elezioni europee incalzano ed i partiti “di sistema” ritengono indispensabile accorparvi quelle provinciali. Per un duplice scopo: 1) garantire una decente partecipazione popolare al fine di frenare la sempre più accentuata deriva astensionistica e 2) portare soprattutto al voto i propri clientes per mantenere quel livello di consenso che ne garantisce la sopravvivenza istituzionale e quindi l’esercizio del potere che costituisce l’unica vera ragione della loro esistenza.
E ciò è tanto vero che da settimane è ormai partito il gioco della contrattazione delle candidature tra i vari partiti sia della coalizione di centrodestra che delle opposizioni, le quali alla fine potrebbero presentarsi anche unite. Addirittura si vocifera che nella coalizione di governo l’accordo sarebbe stato raggiunto sulla base dei voti conquistati dai singoli partiti alle ultime elezioni regionali (Fratelli d’Italia 15,1%, Forza Italia 14,7%, Lega 6,8%, Mpa 6,8%, Dc 6,5%) e quindi ripartendo le nove (alle sei delle province bisogna aggiungere le tre delle città metropolitane) candidature alla presidenza in ragione di tre ciascuno a FdI e FI ed una a testa per gli altri tre partiti. E lo stesso si dice che accadrebbe nel caso le opposizioni si presentassero unite: le nove candidature alla presidenza sarebbero divise in parti eguali avendo ottenuto le liste di Sud chiama Nord, del Pd e del M5S risultati pressoché simili.
Insomma, la politica siciliana, anche con la marea delle candidature consiliari, è pronta alla grande abbuffata di potere! Al ritorno, cioè, alle regole istituzionali ed elettorali del passato per consentire ai gruppi dominanti dei partiti di riappropriarsi dell’egemonia sull’apparato organizzativo locale attraverso la utilizzazione strumentale delle elezioni popolari degli organi delle province e delle città metropolitane. Come se per dieci anni, con l’abolizione delle province e l’introduzione dell’elezione indiretta di secondo grado degli organi dei liberi consorzi comunali e delle città metropolitane, si fosse sospesa la democrazia ed ora è arrivato il tempo di ripristinarne le regole auree. Naturalmente, con la celata consapevolezza che si tratta, sotto “mentite spoglie”, di una ‘truffa’ ai danni dei cittadini ancora più grave di quella realizzata dai dieci anni di commissariamento delle province che ora, assieme alle città metropolitane, verrebbero piegate e rese funzionali ai disegni di potere delle oligarchie partitiche che nessun interesse hanno per creare un sistema di governance locale ancorato alle comunità ed ai territori con i loro diritti ed i loro bisogni.
Ma tant’è! Questo è l’indirizzo dell’attuale politica siciliana e, data la corrispondenza con la stragrande maggioranza della politica nazionale, conviene non illudersi troppo che esso possa essere facilmente deviato verso obbiettivi istituzionali virtuosi di segno diametralmente opposto alla deriva di una democrazia resa farlocca dai suoi dirigenti incapaci di servire ed anzi, per di più, intenti a servirsi dei bisogni delle comunità. Salvo che, chiaramente, non ci si accontenti della fine dell’ingiustificabile periodo di affidamento della titolarità degli organi istituzionali delle province a commissari nominati dal presidente della regione!
In ogni caso, però, è utile evidenziare quelli che, secondo me, costituiscono i tre ‘nodi’ principali di questo disegno di legge (licenziato per l’aula dalla I Commissione “Affari istituzionali” dell’Assemblea Regionale Siciliana e) tendente a rimettere in piedi il modello di organizzazione della governance locale antecedente il purtroppo velleitario tentativo di organizzare i liberi consorzi e le città metropolitane non secondo il solo principio di autonomia ma anche in base ai più innovativi criteri di sussidiarietà e federalizzazione.
A tal fine, la prima quistione da evocare è quella del dimensionamento delle nuove province e città metropolitane che dal disegno di legge in discussione sono istituite “quali enti di area vasta”. Il che, se volesse avere un significato, dovrebbe indicare che le vecchie circoscrizioni provinciali non sono più adeguate alle esigenze di uno sviluppo tecnologicamente avanzato e dovrebbero quindi essere riperimetrate, per riunirle e accorparle in confini più ampi di quelli delle tradizionali province in modo da consentire di esercitare efficacemente le loro funzioni di governo e soprattutto gestire in modo efficiente ed economico i servizi di livello sovracomunale necessari allo sviluppo economico-sociale delle comunità territoriali. Del resto, questa perimetrazione per così dire sovra-provinciale è ormai indicata non solo dalle più significative esperienze di pianificazione strategica e di programmazione territoriale ma anche dalle più avanzate riorganizzazioni di istituzioni pubbliche come le Camere di Commercio, le Autorità di sistema portuale, la rete degli Aeroporti di interesse nazionale. Per non dire anche della organizzazione di importanti soggetti sociali come le Confederazione dei sindacati dei lavoratori (in particolare, v. la Cisl) o le Associazioni degli organismi datoriali. Dopo la solenne affermazione di volere istituire “enti di area vasta”, il ddl in parola, però, di questa riconsiderazione dei confini territoriali delle province e delle città metropolitane non ne parla completamente e così, alla fine, si ritorna alle ripartizioni dei nove enti provinciali della riforma mussoliniana, negando nei fatti tutte le affermazioni di adeguamento degli enti alle nuove esigenze tecnico-funzionali dei servizi da fornire alle comunità ed in ultimo quindi anche le stesse ragioni del cambiamento della governance.
E veniamo alla seconda faccenda che, però, in un certo senso costituisce il cuore della riforma ‘schifaniana’. Vale a dire, l’elezione a suffragio popolare e diretto degli organi delle province e delle città metropolitane. Ora, a tal proposito bisogna essere estremamente chiari, dopo anni di mistificazioni e di rigurgiti di ignoranza. L’elezione indiretta di secondo grado di organi istituzionali non costituisce né un rimedio per risanare le finanze pubbliche (come pretendevano i provvedimenti di Monti e la propaganda dei ‘grillini’) né un vulnus democratico. Semplicemente è un meccanismo elettorale coerente al modello istituzionale che si ispira ai principi di organizzazione del federalismo. Che è l’indirizzo politico introdotto dalla riforma costituzionale del titolo V della Costituzione del 2001 e confermato per ben due volte dai referenda del 2005 (contro la controriforma ‘berlusconiana’) e del 2016 (contro il tentativo di modifica ‘renziano’). Quindi, da questo punto di vista, è stato estremamente lineare e coerente l’avere previsto da parte delle leggi ‘Crocetta’ e, a livello nazionale, ‘Delrio’ l’elezione di secondo grado degli organi delle province e delle città metropolitane (tranne i sindaci di queste ultime direttamente previsti dalle leggi o, a livello nazionale, anche dagli statuti). Soltanto che questo figurino federale avrebbe dovuto essere ‘tagliato’ in modo da aderire meglio alla complessità del sistema multilivello e quindi prevedere, accanto all’elezione indiretta dell’organo di controllo ed indirizzo (il consiglio), quella diretta (universale e popolare) dell’organo di governo (il presidente e il sindaco) delle province e delle città metropolitane. In modo che quest’ultimo, esercitando appunto funzioni di governo e quindi non di semplice amministrazione ma politiche, potesse avere una investitura olistica che è data esclusivamente e direttamente dal popolo sovrano. E così soddisfacendo anche quella giurisprudenza della corte costituzionale che prevede per le istituzioni territoriali di secondo livello almeno un organo rappresentativo eletto direttamente dal corpo elettorale.
Dunque, non è questa dell’elezione diretta dei presidenti delle province e (secondo il ddl di cui discutiamo) delle città metropolitane la scelta sbagliata che danneggia il sistema di governo democratico delle aree vaste in Sicilia. L’errore grave è costituito, piuttosto, dalla eguale elezione diretta prevista per i consigli che, essendo organi collegiali, costituiscono l’unica sede di rappresentanza degli interessi territoriali dei comuni e quindi l’unico luogo dove si può realizzare l’incontro e la composizione armonica delle vocazioni dei territori e delle comunità. Insomma, l’unico spazio dove realizzare il ‘patto federale’ creato dal nuovo continuum istituzionale tra comuni e province o città metropolitane, sostitutivo della vecchia separazione degli enti locali risalente al Testo Unico del 1934. Ma se questo è vero, non c’è dubbio che è qui che si infrange, con l’elezione diretta, la rappresentanza territoriale dei singoli comuni per affermare ancora una volta quella politica dei partiti che, però, oggi altro non sono che le maschere dei gruppi dirigenti che se ne sono appropriati (v., emblematica, la disputa tra Cuffaro e Rotondi in ordine alla ‘proprietà’ della Dc). Volerla affermare per forza è semplicemente la dimostrazione di una arroganza che non ha limiti.
E veniamo rapidamente al terzo dei problemi che questa riforma legislativa pone. Anzi, per essere precisi, non pone perché esso consiste esattamente nella mancata considerazione dei comuni e della loro crisi senza la cui soluzione nessun cambiamento della governance locale è immaginabile. Come sa chi di queste quistioni si occupa, infatti, oggi i comuni in special modo in Sicilia soffrono di una crisi economico-finanziaria che praticamente ne ha cancellato tutti gli spazi di autonomia. Ad essa si deve poi aggiungere la devastante crisi strutturale della quale parlava fin dall’inizio della seconda metà del secolo scorso Massimo Severo Giannini – che giustamente, lamentava la incapacità della maggior parte di essi (quelli cd. polvere) ad esercitare in modo adeguato le fondamentali funzioni loro assegnate – e che, oggi, con lo sviluppo industriale e post-industriale ha colpito soprattutto i comuni capoluogo delle aree metropolitane che non son più in grado di garantire alcuna partecipazione popolare, in particolare, alle loro periferie urbane. L’effetto di tale condizione è pertanto la generale condanna dei comuni, da un lato, al ruolo di enti relegati all’esercizio esclusivo di una pervasiva gestione amministrativa quasi sempre sconnessa dagli standards ottimali richiesti dalle esigenze di funzionalità ed economicità e, dall’altro, allo status di enti privi della capacità di esercitare qualsiasi funzione di indirizzo politico. Ne deriva che vi è una necessità assoluta che vengano riformati soprattutto se si pensa, in una prospettiva federale, che i comuni debbano avere un ruolo centrale nella nuova governance locale costruita intorno alle province ed alle città metropolitane. Il non tenerne conto (di una situazione come questa cennata) è indicazione certa che le linee della riforma che si vorrebbero introdurre non seguono alcuna vision e si muovono in base ad input esclusivamente particolari finalizzati ad interessi ‘personali’ piuttosto che al bene delle comunità.
Confermando così, in conclusione, che le norme proposte nulla hanno a che vedere con la democrazia vera e quindi che esse costituiscono un tentativo di strumentalizzazione degli istituti elettorali per perseguire gli inconfessabili interessi dei vari dirigenti di partito che sono occultati dall’intenzione di celebrare l’election day con le elezioni europee del prossimo 9 giugno!