Europee, purtroppo persiste ancora la personalizzazione politica.

Era e resta il malcostume politico principale. La personalizzazione sfregia la democrazia interna ai partiti e trasforma questi strumenti politici in cassa di risonanza e di amplificazione del verbo del capo.

Diciamoci la verità senza ipocrisia ed infingimenti. La polemica innescata da Prodi sul cosiddetto tradimento agli elettori se il leader di un partito si candida in tutte le circoscrizioni per il rinnovo del Parlamento europeo anche quando sa che non farà parte di quell’autorevole consesso politico ed istituzionale, è semplicemente grottesca perché di quei casi è zeppa la concreta esperienza politica italiana. Ed è persin inutile fare i nomi perché sono noti a tutti. Almeno a quelli che li vogliono vedere senza ipocrisia, appunto, e senza l’ormai nota doppia morale. Semmai, quello che non possiamo non rilevare e che qualcuno volutamente dimentica, è come un partito dovrebbe comportarsi anche di fronte ad una consultazione importante come quella per il rinnovo del Parlamento Europeo.

Anche su questo versante ci sovviene l’esperienza, positiva e corretta, della cosiddetta prima repubblica. E, per fermarsi al più grande partito di quella stagione, la Dc, – anche se quel concreto atteggiamento è proseguito con alcuni partiti che sono succeduti alla stessa Dc – la strada era quella di candidare il segretario nazionale in una sola circoscrizione elettorale e altri leader in altre realtà territoriali. Senza, quindi, marcare la totale identificazione del segretario nazionale con tutto il resto del partito da un lato e, di conseguenza, lanciando anche la sfida delle preferenze con gli altri leader dall’altro. E, in secondo luogo, ed è questo l’aspetto politicamente più rilevante, evitando quella sfacciata personalizzazione della politica e nella politica che era, e resta, il vizio principale che indebolisce la credibilità dei partiti e ridimensiona il valore della partecipazione democratica e collegiale.

Al riguardo, non è sufficiente sostenere che erano altri tempi. Semmai, e non possiamo non evidenziarlo, si tratta di un vulnus che caratterizza l’attuale comportamento della classe politica italiana e che, purtroppo, riduce gli stessi partiti a grigi cartelli elettorali alle dipendenze dei rispettivi capi partito.

Questo è il dato politico centrale dell’attuale discussione sulle candidature, o meno, dei capi partito in tutte le circoscrizioni elettorali del Parlamento Europeo. Perché sin quando prevale in modo sfacciato e decisivo il criterio – o il disvalore – della spietata personalizzazione della lotta politica è perfettamente inutile pensare di risollevare la credibilità della politica e, al contempo, il prestigio e l’autorevolezza dei politici. E questo perché la personalizzazione inesorabilmente sfregia la democrazia interna ai partiti e trasforma questi strumenti politici in cassa di risonanza e di amplificazione del verbo del capo. E il cuore del dibattito, di conseguenza, non è la permanenza dei leader di partito nel Parlamento Europeo ma, semmai, evitare le candidature multiple degli stessi capi partito che identificano in modo inscindibile la figura del capo con il partito stesso.

Questo era e resta il malcostume politico principale. Elemento che, come noto, i sacerdoti del nuovismo, di norma, non colgono limitandosi a scrutare il dito e non la luna. Quando basterebbe, appunto, copiare quello che già si faceva nel passato nei partiti popolari, di massa e democratici. Quando, cioè, prevaleva la democrazia interna e non la “democrazia dell’applauso” nei confronti del capo di turno.