Finalmente l’alba, un film dove manca il dato politico.

La ricostruzione storica, con le sue implicazioni politiche, risulta assente. Il film resta a metà strada tra nostalgia e omaggio al cinema dell’epoca d’oro, quando si parlò di Hollywood sul Tevere.

Ci sono ancora film in grado di suscitare un dibattito sul cinema italiano? Dopo aver visto Finalmente l’alba, “ultima fatica” del regista Saverio Costanzo, tale operazione sembra possibile. La pellicola vuole essere un omaggio al boom del cinema internazionale (in particolare statunitense) nel secondo Dopoguerra a Roma. 

Uno dei principali artefici di tale rilancio fu – come è noto – il giovane Sottosegretario alla Cultura con delega allo Spettacolo, Giulio Andreotti. 

Nell’immediato dopoguerra c’è tutto da ricostruire e il presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, dà carta bianca al suo Sottosegretario per rimettere in piedi la produzione cinematografica italiana. Il compito è arduo, anche perché a guerra appena finita lo strapotere di Hollywood è dominante. Gli studi di Cinecittà sono distrutti, depredati dai nazisti che hanno portato via tutte le attrezzature verso la Germania, bombardati dagli alleati e poi requisiti per ospitare tantissimi sfollati.

L’Italia ancora contadina e piccolo borghese che si lascia alle spalle la guerra ricomincia a sognare e assieme alle opere neorealiste e ai kolossal statunitensi fa i conti con il passato e prova a guardare con fiducia al futuro. Oggi non possiamo non riconoscere come il merito debba andare anzitutto alla lungimiranza di De Gasperi e Andreotti, che per indole e formazione culturale diffidano del mondo di celluloide, effervescente e anche un po’ licenzioso, fatto da attori e attricette, registi, lustrini e paillettes (“nani e ballerine”, come direbbe Rino Formica).

Incisivi sono i decreti del governo De Gasperi a sostegno del cinema. All’inizio degli anni ’50 i film stranieri rappresentano circa il 90 per cento delle produzioni cinematografiche e svariati appelli e manifestazioni delle maestranze italiane richiedono attenzione. Durante un raduno in Piazza del Popolo, l’attrice Anna Magnani termina il suo appello con un fragoroso “aiutatece” in romanesco. Il governo se ne fa carico e Andreotti cura l’iter della legge approvata a luglio del 1950 che istituisce un fondo speciale per il credito cinematografico e disciplina la circolazione dei film prodotti all’estero e doppiati in lingua italiana. 

La cosiddetta “tassa sul doppiaggio”, prevede che per ogni film straniero in circolazione si debbano versare 2 milioni e mezzo di lire, mentre il produttore per ogni film realizzato in Italia possa distribuirne un altro senza pagare la tassa. Il provvedimento è un successo perché la “par condicio” distributiva consente ai blockbuster americani di reinvestire i proventi degli incassi in produzioni a Cinecittà, usufruendo tra l’altro del cambio favorevole (tra dollaro e lira) e del basso costo della manodopera qualificata e delle maestranze locali.

La legge Andreotti pone l’accento anche sugli aspetti industriali del cinema per un rilancio strutturale e duraturo, in stretta relazione con la riapertura delle sale cinematografiche e degli studi di Cinecittà. Il primo tax credit nella storia del cinema italiano è dunque di andreottiana memoria. Nel 1953 si arriva a produrre negli Studios di Cinecittà ben 150 film e di questi 42 pellicole sono esportate nel mercato Usa.

Peccato che questa (necessaria) ricostruzione storico-politica sia del tutto assente nel film di Saverio Costanzo. Sì resta infatti a metà strada tra nostalgia e omaggio all’epoca d’oro del cinema italiano, quando emerse l’immagine di quella Hollywood sul Tevere che tanto influenzò i cineasti delle generazioni successive.

La pellicola è anche un “romanzo di formazione”, il viaggio verso l’età adulta (il tutto avviene in una manciata di ore) della sua giovane protagonista, Mimosa, una ragazza della Roma popolare che sogna un futuro nel mondo del cinema.

Mimosa è una sorta di Alice (nel paese delle meraviglie) scritturata come giovane comparsa in una produzione Usa girata a Cinecittà.

La ragazza viene catapultata suo malgrado, ma non senza momenti di euforia, in un universo privo di regole (e di scrupoli) animato da narcisismi e rivalità tra le star di Hollywood, ma anche da una fame di vita che vede nella “nuova arrivata” una fonte di linfa vitale. 

Mimosa si ritrova intrappolata in un labirinto, a tratti seducente e a tratti respingente, in un continuo tira e molla che la getta in uno squilibrio perenne.

Il senso della storia e il suo percorso narrativo sono chiari, ma è come se il film che approda sullo schermo ne fosse la versione sfalsata, con un effetto di sdoppiamento coerente con la trama, ma meno gratificante come esito cinematografico.

In controluce alla narrazione, c’è la tragica vicenda storica di Wilma Montesi, l’aspirante attrice ritrovata morta nel 1953 sulla spiaggia di Capocotta, a illuminare i pericoli e gli inganni di quel mondo (e il possibile “lato B” di quella notte brava). 

Arriverà l’alba a concludere la rocambolesca avventura di Mimosa nella notte romana?