Il dibattito sul fine vita, indirizzato dalla presa di posizione della Suprema Corte di Cassazione, è tra i più delicati che la nostra società si trovi ad affrontare. Il Parlamento è spinto a fare in fretta, con ciò allentando la tensione sulle possibili ricadute negative di una “soluzione radicale”. Al centro resta l’uomo o la misurazione – e quindi l’efficacia – della cura? E qualora la cura non sia risolutiva, lasciamo l’uomo al suo abbandono di solitudine o disperazione? La questione tocca le corde più profonde dell’esistenza umana, chiama in causa il senso della sofferenza individuale, interroga sull’apertura e l’accoglienza della comunità alle persone in difficoltà, specie nella fase declinante della loro vita. In questo scenario a più facce, ognuna meritevole di attenzione, questa mia riflessione vuole essere un invito ragionevole alla prudenza, rifuggendo da ogni deriva ideologica (con margini più o meno grandi di cinismo).
L’unicità irripetibile della persona: oltre l’efficienza e la standardizzazione
Ogni essere umano è un universo a sé, unico e irripetibile. Questa verità, semplice nella sua enunciazione, diviene fondamento imprescindibile quando ci confrontiamo sulla conclusione della vita. Capisco lo sforzo di voler legiferare con onestà su una materia tanto sensibile, ma avverto l’obbligo morale di una cautela incancellabile. Il rischio concreto è che, nel tentativo di regolamentare ogni sfaccettatura, si finisca per intervenire con l’illusione che quanto più la norma diventa minuziosa tanto più risulta adeguata e accettabile. La vita e la morte, tuttavia, non si piegano a rigidi protocolli omnicomprensivi. È necessario un approccio che riconosca l’unicità irripetibile di ogni persona, anche quando manifesta la sua estrema vulnerabilità.
Il rapporto medico-paziente e famiglia: il cuore della cura che la legge non può indebolire
È cruciale che la legge non indebolisca la relazione di cura tra medico, paziente e famiglia. Occuparsi del malato, e non solo della malattia, significa abbracciare la complessità di ogni situazione, la sua specificità e le sue sfumature. C’è una sensibiita che non deve mai venire meno. Se il legislatore dovesse appannare, senza volerlo, la distinzione tra eutanasia e accanimento terapeutico, si correrebbe il grave pericolo di ridurre il rispetto per la persona a una mera osservanza di procedure, sotto la vigilanza di comitati etici. Tale deriva ci condurrebbe a considerare la vita e la morte come scelte puramente private, slegate da ogni riferimento a quella dignità umana che ci unisce e ci definisce come comunità. E domani, una volta affievolito un principio e rimosso un vincolo morale, nulla ci salverebbe da un rapido passaggio verso pratiche di eutanasia.
Non incrinare i valori fondanti: la deriva dell’eccezione che diventa regola
Dobbiamo valutare bene cosa ci attende. Quando si deroga a un valore fondativo come il rispetto assoluto per la vita, si apre una crepa. Forse inizialmente impercettibile, ma capace, col tempo, di minare l’intera diga dei nostri principi etici. Si inizia con una norma apparentemente ragionevole, spinta dalla preoccupazione che altrimenti prevarrebbe l’interventismo delle Regioni, e si finisce con il delegare la decisione alla logica del momento, all’idea che ogni individuo possa disporre della propria esistenza in base al proprio stato d’animo o alla propria condizione personale. In gioco, non c’è solo un impianto legislativo, ma la visione stessa di una società che vogliamo preservare dall’insidia di precetti rispondenti al freddo rigore ddl transumanesimo. Una prospettiva, questa, profondamente aliena dai valori di solidarietà sui quali credenti e non credenti possono comunque ritrovarsi.
Cure palliative, la risposta necessaria alla fragilità e alla sofferenza
Esiste una risposta che si radica nell’etica della cura e dell’accompagnamento: quella dell’accesso universale alle cure palliative. È uno scandalo che ancora, a questo riguardo, si registrino difficoltà per mancanza di farmaci e tecniche opportune. Non ci sono le risorse? Dobbiamo trovarle. Una legge veramente giusta e umana è quella che non si esalta nel disciplinare lo svolgimento di atti ultimativi, ma che obbliga a garantire la qualità della vita fino all’ultimo respiro, che riconosce a tutti il diritto inalienabile di essere accompagnati, sostenuti e assistiti con dignità nel momento culminante della vita terrena.
Troppi, tra coloro che oggi contemplano l’idea di porre fine alla propria vita, non lo farebbero se non si sentissero abbandonati, vittime di una “cultura dello scarto” che, per varie ragioni, li isola. È per questo che si rende urgente una vera e propria rivoluzione culturale e sanitaria nella cura. Non l’escamotage che “strappa” l’addio alla vita dal servizio sanitario, immaginando che se ne preservi così la funzione pubblica, mentre invece se ne intacca alla radice la credibilità. Offrire dignità, vicinanza, sollievo dalla sofferenza e accompagnamento amorevole è il modo più umano e civile di affrontare la complessa questione del fine vita.