Forma di governo, no ad una concentrazione eccessiva di potere.

Il problema riguarda i pericoli che una forma di governo potrebbe provocare. «Rifiutiamo fughe in avanti che portano ad un leader messo in grado di "conformarsi" e "crearsi" una maggioranza a sua immagine e somiglianza».

Sul premierato la lezione di un maestro. Siamo lieti di ripubblicare questo articolo scritto per l’edizione de “Il Popolo” del 20 gennaio 1996. Titolo: Perché il cancelliere.

Per capire laicamente, e cioè senza paraocchi dogmatici, la discussione sulle riforme costituzionali in corso nell’Ulivo e nel confronto con il Polo (che non ha ancora chiarito una precisa posizione, quantomeno di partenza) occorre fare alcune distinzioni spesso dimenticate nella polemica di questi giorni.

In primo luogo (e stando alla lettera dei testi costituzionali) nessuna delle forme di governo ricomprese dalla dottrina nella forma di stato democratico può essere qualificata di per sé una dittatura o un potere “autoritario”. Ciò vale per il presidenzialismo statunitense, per il semipresidenzialismo francese, per il neo parlamentarismo (inglese, tedesco, spagnolo), per il parlamentarismo assoluto (assem-blearismo partitocratico). Si tranquillizzi dunque l’on. Veltroni: non abbiamo mai confuso l’esperienza della quinta repubblica, dopo la fine della guerra di Algeria, con quella di un potere dittatoriale.

Il problema riguarda i pericoli che una forma di governo, per i suoi criteri ordinativi e per il contesto italiano di questa fine secolo, potrebbe, con forti probabilità, provocare. Ad esempio la soluzione israeliana, che sta fuori dalle quattro forme classiche prima indicate, è la più esposta alla prospettiva di una iperconcentrazione di potere, appena tollerabile nel governo dei comuni italiani sopra i 15.000 abitanti: un premier eletto direttamente dal popolo insieme ad un parlamento che può sfiduciarlo solo a condizione di essere automaticamente sciolto.

Anche l’inamovibilità del presidente francese può provocare qualche deriva o tentazione di tipo monarchico: per limitarci alla dimensione meno compromettente, l’urbanistica di Parigi è stata guidata da Mitterand con effetti non troppo diversi da quelli memorabili realizzati a suo tempo da Sisto V per Roma. Ma la questione più delicata riguarda il contesto: quello italiano, con le note distorsioni oligopolistiche nel sistema radiotelevisivo ed in quello della grande finanza e della grande industria, con un numero di soggetti a questo livello assai ridotto rispetto a quello francese (e con una stampa in proprietà dei gruppi maggiori) accentuerebbe o no le virtualità monocratiche del semipresidenzialismo ?

Questi sono i termini veri della dialettica seria che si è sviluppata entro l’Ulivo; la nostra non è una semplice preferenza per il cancellierato o governo del primo ministro ma è una scelta per una forma di governo in cui la “leadership” sia rappresentativa di un partito o di una coalizione vincente; mentre rifiutiamo fughe in avanti che portano ad un leader messo in grado di “conformarsi” e “crearsi” una maggioranza a sua immagine e somiglianza. In questa ipotesi si rischia una concentrazione eccessiva di potere nel vertice dell’esecutivo quando la conformazione riesce (pensiamo allo scioglimento dell’Assemblea nazionale nel 1981 per decisione di Mitterand), mentre si incorre nel pericolo opposto (lunghi periodi di stallo tra esecutivo e legislativi) se si toglie al Presidente francese il potere di scioglimento libero dell’Assemblea, come suggerisce Sartori. 

E per questi motivi che non siamo favorevoli alla subordinata del semipresidenzialismo, tenuta in riserva dell’Ulivo: le subordinate non fanno cadere la principale solo se sono “interne” a questa, se riguardano scelte ed opzioni in qualche misura ricomprese nella scelta di fondo (ad esempio poteri maggiori o minori del governo in Parlamento); ma non è così quando la subordinata risulta sostanzialmente alternativa alla scelta preferenziale. Del resto proprio Martinazzoli ci invitava ad essere coerenti su questo punto, senza cedere alle sirene nuoviste dell’improvvisazione. 

Ciò non significa però che i popolari siano immobilisti e privi di fantasia istituzionale. Alla riunione dell’Ulivo gli esponenti del Ppi si sono recati con un trittico di riforme, tali da qualificare in senso originale il trapianto del cancellierato nell’ordinamento italiano. Nell’insieme delle proposte segnaliamo le più significative:

  1. a) si richiede durata minima di operatività per il governo (due anni) per corrispondere ad una esigenza di stabilità nella nostra vicenda politica contrassegnata da troppecrisi. La durata non garantisce in assoluto l’efficienza, ma ne è di regola una precondizione. Non sarà facile produrre una parziale stabilizzazione di tipo svizzero, ma la proposta, sia pure in via transitoria, andrebbe seriamente considerata (in pratica la mozione di sfiducia costruttiva non potrebbe essere presentata se non dopo due anni la elezione del Premier successivamente alle consultazioni elettorali politiche).

b) si domanda un ruolo forte per il governo nei procedimenti legislativi perché l’Esecutivo possa assumersi la piena responsabilità per l’attuazione del programma presentato agli elettori dalla coalizione vincente; inoltre il governo può impedire, e non solo a tutela degli equilibri tutelati dall’art. 81 Cost., deliberazioni parlamentari di maggiori spese o di minori entrate.

c) Si impone infine un drastico ridimensionamento della patologia dei decreti-legge, ammessi soltanto in materie costituzionalmente delimitate, con i requisiti di necessità e urgenza riconosciuti da una amplissima maggioranza parlamentare.