Francesco, “La Chiesa deve essere un segno di speranza e di compassione”.

Nella lettera ai sacerdoti di Roma, il Papa condanna la mondanità spirituale e il clericalismo, perché la Chiesa sia "casa che accoglie". L’invito a non cedere alle seduzioni del potere.

Il 5 agosto è una data simbolica nella tradizione della Chiesa di Roma per il ricordo del miracolo della neve ed in particolare per la dedicazione della Basilica di Santa Maria di Maggiore. In occasione di questa ricorrenza, Papa Francesco ha indirizzato ai sacerdoti della Diocesi di Roma una lunga lettera, articolata su riflessioni di condivisione ed esortazione spirituale, anche in continuità con le linee guida di riordino del Vicariato di Roma, avviate lo scorso gennaio con la Costituzione Apostolica “In Ecclesiarum communione”. 

La lettera nella parte introduttiva, trova una sua collocazione temporale specifica in questo periodo dedicato al riposo, a cui il Papa attribuisce una sua dimensione umana “Penso a voi, in questo momento in cui ci può essere, insieme alle attività estive, anche un po’ di riposo dopo le fatiche pastorali dei mesi scorsi”; pensiero accompagnato da un attento e sentito senso di gratitudine del Vescovo di Roma verso la costante presenza pastorale del clero romano nella complessità del territorio della Capitale,  “E vorrei anzitutto rinnovarvi il mio grazie: «Grazie per la vostra testimonianza, grazie per il vostro servizio; grazie per tanto bene nascosto che fate, grazie per il perdono e la consolazione che regalate in nome di Dio […]; grazie per il vostro ministero, che spesso si svolge tra tante fatiche, incomprensioni e pochi riconoscimenti» (Omelia per la Messa del Crisma, 6 aprile 2023)”.

Momenti di approfondimento e di ricarica da vivere però non nell’isolamento, ma in un contesto comunitario e di incontro che aiuta a sostenere l’impegno e le sfide del ministero sacerdotale.

Una visione pastorale, quella di Francesco, di una comunità ecclesiale come “casa che accoglie”, che vive e presiede la carità e che “coltivi il prezioso dono della comunione anzitutto in sé stessa, facendolo germogliare nelle diverse realtà e sensibilità che la compongono”. 

Un impegno e una considerazione che coniuga la libertà interiore con il dovere di sentire costantemente il senso della comunità, proprio dell’essere Chiesa.

Citando poi il teologo gesuita canadese, Henri de Lubac, il Papa ribadisce un concetto già più volte citato, la lotta alla mondanità spirituale. «Il pericolo più grande per la Chiesa – per noi, che siamo Chiesa – la tentazione più perfida, quella che sempre rinasce, insidiosamente, allorché le altre sono vinte». E ancora: «Se questa mondanità spirituale dovesse invadere la Chiesa e lavorare a corromperla intaccando il suo principio stesso, sarebbe infinitamente più disastrosa di ogni mondanità semplicemente morale» (Meditazione sulla Chiesa, Milano 1965, 470, Henry De Lubac). 

Un pensiero programmatico che contrasta apertamente la condizione dell’“apparire” o dell’operare secondo un mestiere, rischio che può insinuarsi e, a volte, si insinua nella quotidianità della comunità cristiana. Un monito chiaro quello di Francesco che invita a contrastare il fascino delle seduzioni dell’effimero, delle mediocrità, delle tentazioni del potere e dell’influenza sociale sino a vanagloria, narcisismo e soprattutto “intransigenze dottrinali ed estetismi liturgici, forme e modi in cui la mondanità «si nasconde dietro apparenze di religiosità e persino di amore alla Chiesa», ma in realtà «consiste nel cercare, al posto della gloria del Signore, la gloria umana e il benessere personale» (Evangelii gaudium, 93).

Altra conseguenza della mondanità spirituale evidenziata nella lettera, è il cosiddetto clericalismo, aspetto più volte denunciato da Francesco nel suo insegnamento. Un pastore non può e non deve collocarsi in “alto” o sentirsi superiore al popolo di Dio, ma deve condividerne le difficoltà, aiutare a superare le contraddizioni della vita, accogliere le marginalità sociali e spirituali. Un’intera comunità in cammino, segno di speranza e di compassione e con i suoi pastori sempre “pronti e disponibili a elargire il perdono di Dio, come canali di misericordia che dissetano le aridità dell’uomo d’oggi”.

Molto belle, inoltre, le citazioni in tal senso del profeta Ezechiele, di sant’Agostino e san Paolo, che Papa Francesco richiama nella lettera e che lo portano ad affermare questo è lo spirito sacerdotale: farci servi del Popolo di Dio e non padroni, lavare i piedi ai fratelli e non schiacciarli sotto i nostri piedi”. Un indirizzo deciso avverso a stili di vita ecclesiale elitari e distaccati dalla realtà e dalle profonde ferite della società, a partire da quelle della nostra città di Roma, con l’invito a non scoraggiarsi, a riconoscere fragilità e inadeguatezze, per poi ripartire nel lavoro con un rinnovato spirito di servizio verso il prossimo, che cerca un approdo nella consolazione del Signore. 

Infine, la citazione della preghiera davanti all’immagine della Salus Popoli Romani e il ringraziamento rivolto ai sacerdoti “per quello che fate e quello che siete”. Un legame del Papa con Roma, con le sua storia e con la sua comunità ecclesiale, da sempre “laboratorio” di idee, di solidarietà vissuta e di viva spiritualità.