Gabon, un nuovo golpe in Africa francofona: incalza l’alternativa al neocolonialismo.

Il Gabon, ricchissimo di materie prime, ha una popolazione in povertà ed è governato da 56 anni da una sola famiglia. La richiesta di cambiamento che attraversa l'Africa va interpretata.

Nella giornata di ieri, 30 agosto, si è infranta la coltre di silenzio sul Gabon, che perdurava dallo scorso 26 agosto, giorno in cui si sono tenute le elezioni presidenziali, svoltesi in un contesto di chiusura e di isolamento verso l’esterno, e di cui solo ieri sono stati resi noti ufficialmente i risultati, favorevoli al presidente uscente Ali Bongo Ondimba che però è stato deposto immediatamente dopo l’annuncio dell’esito delle elezioni, che sono state annullate, da un colpo di stato militare e messo agli arresti domiciliari. Subito dopo è stata ripristinata internet e hanno ripreso a fluire le informazioni. Non si segnalano episodi di violenza nonostante la forte tensione e le accuse di brogli rivolte a Ali Bongo da parte del suo principale sfidante Albert Ondo

La famiglia Bongo detiene la presidenza del Gabon da 56 anni ininterrottamente, dal 1967 al 2009, con Omar Bongo, padre del presidente deposto Ali Bongo il quale ha governato nei 14 anni successivi. I presidenti Bongo hanno garantito relazioni piuttosto amichevoli tra Gabon e Francia. Quest’ultima è molto presente nello sfruttamento delle ingenti risorse naturali di cui dispone il Paese africano.

Il Gabon è situato sulla costa atlantica dell’Africa centrale, ha una superficie poco più grande di quella della Romania ma ha appena 2 milioni e mezzo di abitanti. Il suo territorio interno, quasi interamente ricoperto da una fitta vegetazione equatoriale, rimane ancora tra i più inaccessibili dell’Africa. Ma è ricchissimo di materie prime come petrolio, gas, carbone, uranio, manganese. Il Gabon è il quinto paese produttore di petrolio in Africa, con il settore petrolifero che rappresenta circa il 50% del suo Pil e l80% delle esportazioni. Eppure nonostante una popolazione esigua e ingentissime ricchezze naturali, superiori addirittura nel complesso a quelle delle petro-monarchie del Golgo Persico, la gran parte del popolo gabonese non è ancora riuscita ad uscire dalla povertà.

Le reazioni internazionali al golpe militare in Gabon, capeggiato dal generale  Brice Oligui Nguema, a capo del “Comitato per la transizione e il ripristino delle istituzioni”, che sostiene di rappresentare unitariamente le forze di difesa e di sicurezza, sono accomunate dalla richiesta di evitare ogni spargimento di sangue e di tornare al più presto a una situazione di normalità istituzionale. Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Cina sembrano convergere, inoltre, nell’esprimere preoccupazione per la stabilità dell’Africa sub-sahariana e dell’Africa centrale. Con il golpe avvenuto ieri a Libreville, dopo appena un mese da quello in Niger, sono saliti a dieci i colpi di stato negli ultimi tre anni in quell’area.

A testimonianza del fatto che l’aspirazione di molti popoli africani a superare le forme ancora esistenti di neocolonialismo e a riapproppriarsi delle loro risorse si diffonde in un tempo in cui l’Africa sta ritrovando un suo protagonismo politico e in cui nuovi equilibri geopolitici globali consetono anche a stati di medie o piccole dimensioni di far valere il loro diritto allo sviluppo attraverso rapporti economici e finanziari più equi e rispettosi delle identità e delle culture locali.

Anche attraverso questi vari traumatici cambi di regime, pur in sé deprecabili,  passa una esigenza di cambiameto che l’Italia e l’Ue devono saper interpretare, al di là di nuove anacronistiche logiche di blocchi. Molti stati africani cercano alleanze a geometrie variabili, multi-allineamenti in funzione di un percorso di sviluppo di cui loro vogliono definire le tappe e i modi. Quello che non è più pensabile nel mondo attuale è l’idea di poter mantenere rapporti così sfavorevoli, come nel caso del Gabon, verso la parte africana, già contrastati al suo tempo da Enrico Mattei, che non sono più tollerabili da questa generazione di africani e non lo devono essere anche da noi occidentali.