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martedì, Febbraio 11, 2025
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Gli emigranti e l’Isola dei famosi

L'articolo esplora il complesso tema dell'emigrazione, lanciando una riflessione provocatoria e suggestiva su possibili soluzioni alternative, e quindi immaginando la creazione di nuovi spazi autonomi per i migranti.

L’emigrazione è il tema di un perenne conflitto che “confrigge” politica e magistratura, rosolandole giorno dopo giorno per ogni verso. È strano come a volte la soluzione sia a portata di mano e nessuno se ne accorga. Il cruccio non è solo italiano ma ha dimensioni assai più vaste. Da tempo ci si arrovella in mille modi mentre hai proprio sotto al naso la chiave di volta per sbarazzarti del problema. 

Allo stato attuale, integrazioni, coabitazioni e convivenza stentano ad affermarsi in maniera da arginare il cammino di speranza dei poveri del mondo. Creare un modello di vita accettabile nella patria di quelli che vogliono abbandonarla sembra purtroppo ancora una pia illusione. Se proprio si deve essere cinici, in omaggio alla praticità richiesta da queste circostanze, allora resta solo una ipotesi, per quanto suggestiva, da coltivare. 

È passato un po’ di moda ma alcune sue canzoni restano nella memoria e non perdono di attualità. Edoardo Bennato ha scritto “L’isola che non c’è” indicando anche la direzione di marcia per trovarla. Se non bastasse, basterebbe che si tracciasse la mappa dell’isola del tesoro, dove il bottino prezioso di cui impossessarsi è l’isola stessa.

Occorre fare i conti con la realtà e non perdersi nei meandri di leggi, sentenze e cavilli di ogni tipo. Con tutta l’aridità del caso, si dovrebbe andare al sodo per levarsi di dosso una rogna che segna in buona parte la pelle e la pace dei paesi dell’Occidente. Se ciascuno Stato rinunciasse ad una parte del suo territorio e lo cedesse gratuitamente agli uomini che vengono dal mondo dei morti di fame la questione avrebbe finalmente fine.

In alternativa, essendo questa ipotesi di astratta attuazione, si potrebbe più realisticamente individuare una sorta di isola abbastanza grande da accogliere le migliaia di persone che altrimenti scalpitano per entrare dove la ricchezza non disdegna di fare la sua parte. Risponderebbe al bisogno di non restare a diretto contatto con il popolo dei migranti e dare quest’ultimi comunque una prospettiva di vita decente. Naturalmente, se il lambirsi non fosse un problema, andrebbe bene anche un qualsiasi altro luogo a digiuno di mare.

Si dovrebbe immaginare una terra grande almeno come la Sardegna e ancor di più che possa darsi i connotati di un nuovo Stato. Gli immigrati, tramite libere elezioni, si dovrebbero autonomamente dare un loro governo e delle loro leggi, e quindi amministrare la giustizia e provvedere all’economia. Gli altri Stati potrebbero impiantare lì fabbriche ed imprese in grado di dare lavoro ma anche di garantire una produzione di beni da mettere sul mercato. Si dovrebbe insomma far nascere un nuovo Stato in grado di essere indipendente, per come possibile, dal resto del mondo, inizialmente sostenuto dai paesi che ne hanno permesso la creazione.

Per individuare un’isola per ogni Stato ufficialmente censito, che garantirebbe i sonni tranquilli a non pochi governanti di questo pianeta, sarebbe opportuno che quest’ultimi fossero un po’ più ispirati, rinunciare all’istrionismo di chi urla allo straniero come un appestato, liberarsi dalle isterie di chi teme soltanto l’invasione di un prossimo sconosciuto, erigendo inefficienti barricate e poco altro ancora.

Una politica illuminata dovrebbe invece provvedere ad istruire quella gente per come organizzarsi e per come, infine, issare in alto una bandiera che per ora non c’è. Non c’è da temere per la concorrenza di un’isola che non sia dei famosi, dove si lotterebbe non più per togliersi la fame ma per il riconoscimento di una dignità. Basterebbe aver letto la Bibbia per comprendere che per un progetto del genere non siamo nella dimensione dell’impossibile ma invece nel pieno di una concretezza che sfugge agli uomini d’oggi. 

Oltre un paio di millenni or sono, il preveggente Padreterno ha tracciato una via a cui guardare, pur essendo quella una lezione solo di riflesso, ad integrazione di un eccesso di orgoglio da punire. Babele era il luogo in cui le lingue si confusero ma impararono, preso atto della realtà, anche a coesistere, dove le differenze rallentarono l’efficienza ma assicurarono la ricchezza delle diversità.

Per dirla alla Dostoevskij, ci vorrebbe una terra in cui se non è possibile vedere “il daino che gioca accanto al leone” potrebbe almeno realizzarsi una unione di culture diverse per il traguardo di una comune salvezza. Per prima l’Europa, di cui è chiaro solo il nome, e poi anche gli Usa, piuttosto che nascondere la polvere sotto al tappeto, sostenendo costi continui per una incerta pulizia, un’idea impossibile di ordine, meglio farebbero pragmaticamente ad ammucchiarla mettendo in piedi, granello dopo granello, zolla dopo zolla, uno Stato mancante.

Un modello a cui ispirarsi potrebbe essere quello dei Padri Pellegrini che non troppi secoli fa, a bordo della Mayflower, muovendo dall’Europa, sbarcarono sulle coste americane alla altezza di Capo Cod e sottoscrissero il patto della Mayflower dandosi una forma di autogoverno. Con gli accorti adattamenti, la storia potrebbe in forma aggiornata anche ripetersi. 

Gli oppositori a questa idea potrebbero commentare con un “neanche per sogno” ed i favorevoli potrebbero replicare con un “sarebbe un sogno”. Quelli con poca visione direbbero che è idea da libro dei sogni e quindi è inutile perderci tempo. Altri, più sensibili, urlerebbero ad inaccettabili provvedimenti di confino. Eppure, in mancanza d’altro…