Quando si perde di brutto, inutile addolcire la pillola. Guardare in faccia la realtà è la cosa più giusta da fare, anche se dolorosa.
L’esito del voto di domenica va colto come segnale culturale prima che politico.
Si possono dare interpretazioni di superficie, che sono certo fondate.
Il centro sinistra si è diviso. Vero, anche se i pochi voti andati a LeU non sono stati determinati per la sconfitta. Il PD ha pagato la sua grave crisi di identità. Vero. Se si fosse investito per tempo su Gentiloni, come molti avevano proposto, forse le cose sarebbero andate un po’ meglio. Le liste alleate del PD hanno faticato a farsi strada. Verissimo.
Del resto, non si può costruire una coalizione in poche settimane, dopo che il concetto stesso di coalizione è stato cancellato dal vocabolario della politica per anni.
Quanto a Forza Italia e ai suoi alleati centristi, aver sdoganato e legittimato la Lega di Salvini (che non è più quella di Bossi) e la destra estrema di Meloni, ha portato effetti devastanti. Oggi il centro destra in Italia non è certo ispirato alla cultura liberale e moderata di cui Berlusconi ha parlato in Italia e in Europa.
I vincitori delle elezioni sono Salvini e De Maio. Punto.
Ma una lettura più profonda del voto porta a dire che in realtà esce sconfitta dal voto l’intera impalcatura della democrazia così come l’avevamo conosciuta.
Tre sono gli elementi costitutivi di questo declino.
Primo: l’allontanamento di sempre maggiori settori di popolazione dalla convinzione che democrazia rappresentativa e giustizia sociale possano essere due facce della stessa medaglia. La democrazia sta perdendo la sua radice sociale e il suo respiro comunitario. Poco importa se, a fronte di ciò, vincono le due forze che più di altre scommettono sulla lusinga dell’individualismo. Quando la trama della democrazia come giustizia sociale si rompe, le conseguenze sono imprevedibili e devastanti. Come la storia insegna, anche nei suoi passaggi più drammatici.
Secondo: l’inconsistente presenza dei partiti democratici e popolari nel territorio.
La politica democratica e popolare ormai non è più fisicamente presente nella comunità. Si è affidata a meccanismi di comunicazione freddi e lontani. Su questo piano però non poteva che essere sconfitta.
Una politica democratica e popolare non può non avere un contatto diretto e fisico con i cittadini. La solitudine nella quale sono stati lasciati li ha portati in massa nelle accattivanti braccia dei demagoghi. Nessuno li ha presi per mano per condurli oltre le paure e le inquietudini. La stagione delle riforme di questi anni – pur essendo stata importante – è stata fredda, non spiegata con il calore popolare che sarebbe stato necessario. La narrazione non ha parlato al cuore del popolo. E i cialtroni che parlano solo alla pancia ne hanno approfittato.
Terzo. Sembra quasi che una larga parte degli elettori, superata l’emergenza della crisi di questi anni, abbia voluto chiudere gli occhi per non vedere il percorso ancora tutto in salita che l’Italia ha davanti. Hanno voluto così far finta di poter credere nelle scorciatoie della superficialità. Temo che la realtà si incaricherà presto di richiamare tutti alla dura realtà, prima di quanto si pensi. Allora il sogno effimero diventerà un incubo. Ma sarà troppo tardi e il Paese dovrà ripartire ancora più fragile, diviso e povero.
Mentre per l’immediato ci affidiamo alla saggezza del Presidente Mattarella, al quale compete un compito non invidiabile, bisogna lavorare per il futuro, ripartendo da zero.
Servono nuovi pensieri, nuove formule e nuovi protagonisti. E chi ha avuto l’onore in questi ultimi decenni di esercitare ruoli di potere e di responsabilità ai vari livelli, locali o nazionali, deve mettersi a disposizione con generosità di un nuovo inizio delle culture democratiche e popolari.