Il Consiglio nazionale del Ppi, tenuto a Roma nel novembre del 1999, fu dedicato alla commemorazione di Benigno Zaccagnini a dieci anni dalla scomparsa. Furono poi pubblicati gli atti, ricchi di ben tredici contributi. L’opuscolo, allegato a “Il Popolo” del 2 dicembre dello stesso anno, aveva per titolo “Zaccagnini, un cristiano in politica a causa della fede”.
“Riproporre Zaccagnini oggi – scriveva nell’introduzione Pierluigi Castagnetti, segretario del Ppi – significa dunque parlare di un uomo sempre alle novità, sempre rivolto al futuro, sempre in ascolto e capace di assumersi la responsabilità più pesanti: non un uomo di nostalgie, ma di speranza, anche quando questa era «faticosa» da conquistarsi e da diffondere”.
La riflessione di Guido Bodrato, qui ripresa integralmente, fornisce un interessante affresco storico sulle vicende che hanno riguardato (in particolare) la Dc a cavallo della tormentata vicenda, conclusa con il martirio di Aldo Moro, della solidarietà nazionale.
Gli anni di una “democrazia difficile”
(Guido Bodrato)
Le “storie” della Repubblica hanno riservato a Benigno Zaccagnini un posto importante tra i personaggi che hanno partecipato a vicende decisive per la vita del Paese, senza tuttavia considerarlo tra i protagonisti. E il revisionismo, che ha cercato di ridimensionare ulteriormente il significato della fase politica della solidarietà nazionale, ha finito col dimenticarlo. I Popolari debbono ricordarlo, poiché ha scritto una pagina importante della loro storia.
Non è estraneo alla censura dei revisionisti l’obiettivo di dare un significato di “svolta storica” alla fase post-consociativa e ad una polemica contro la “democrazia dei partiti” che in realtà si è dissolta in pochi anni. Quella che doveva essere una “rivoluzione democratica” si è esaurita infatti in un’ondata populista e la riforma istituzionale, che avrebbe dovuto garantire consenso elettorale e stabilità di governo, rischia di farci naufragare in un nuovo trasformismo.
Cresce così il bisogno di recuperare la memoria del passato e di tornare a riflettere sul significato di un’esperienza che ha segnato una generazione, anche se si sono indebolite le speranze che facevano riferimento a uomini come Zaccagnini. La storia della solidarietà nazionale è stata più tragica e più seria di quanto hanno scritto i teorici del “doppio stato”, che non a caso sono costretti a rifugiarsi nei “misteri” e nel teorema della “restaurazione”, per mettere in ombra il fallimento dell’uso politico della storia, cui sono spregiudicatamente ricorsi. La storia di quegli anni si è accompagnata a straordinari mutamenti della società italiana, che hanno riguardato anche i valori cui si è ispirata la Costituzione, ma che in qualche modo anticipavano le trasformazioni che ormai condizionano tutte le grandi democrazie.
L’evoluzione del Paese è stata tutt’altro che lineare: per comprenderlo è sufficiente ricordare gli anni delle stragi “nere” e del terrorismo “rosso”, sui quali è comunque prevalsa la strategia dei partiti democratici. Zaccagnini ha vissuto quel periodo con la consapevolezza delle contraddizioni che pesavano sulla realtà italiana e anche dei limiti della DC, ma con una straordinaria passione democratica. C’è un evidente rapporto tra la strategia dell’attenzione di cui parlava Moro (contrapponendola alla strategia della tensione), e la politica del confronto cui si sono riferite le scelte di Zaccagnini (che rifiutava la logica dello scontro), sia quando facciamo riferimento alla questione democristiana, sia alla vicenda nazionale.
Da un lato la secolarizzazione, dall’altro gli orientamenti post conciliari, avevano inciso in profondità sull’unità politica dei cattolici, che era stata per trent’anni punto di riferimento per la DC e per la vita democratica italiana. Anche l’opposizione comunista aveva tenuto presente questa “coordinata”, sin dalla stagione costituente.
I comunisti non potevano tuttavia ignorare la evoluzione della situazione italiana, come è dimostrato dagli anni della contestazione e poi dal referendum sul divorzio. Quel referendum, voluto dai radicali ma anche da una parte rilevante del mondo cattolico, ha sconvolto gli schieramenti tradizionali, assegnando al PCI una centralità che aveva a lungo, ma inutilmente, inseguito. Nella DC, Fanfani pensava di poter giocare una carte decisiva per il rilancio dell’unità politica dei cattolici sul tema dell’unità della famiglia. Moro cercò di evitare un conflitto che avrebbe minato l’alleanza tra cattolici e laici; tuttavia dopo un inutile rinvio, pensò che la cosa migliore fosse non logorare i rapporti con il mondo cattolico. Zaccagnini avrebbe voluto evitare la “politicizzazione” del referendum, lasciando questa scelta alla coscienza degli elettori; ma quando nella Direzione del Partito una minoranza fece propria la proposta elaborata della DC emiliano romagnola, fini con lo schierarsi con l’amico e maestro Aldo Moro, anche se non nascose le sue preoccupazioni.
La sconfitta referendaria, più pesante del previsto, ha preparato la sconfitta delle elezioni regionali del ’75, che per la prima volta fecero temere l’isolamento della DC. Il referendum ha messo in crisi la strategia degasperiana: i cattolici democratici si sono trovati in conflitto con i partiti laici, registrando una spaccatura dell’elettorato cattolico. E la sinistra ha conquistato il governo delle grandi città e la maggior parte delle regioni, restando tuttavia convinta di non poter rischiare uno scontro frontale con la DC per la conquista del governo nazionale. La riflessione berlingueriana sul “compromesso storico” aveva anticipato questa vicenda di qualche mese. Ora i revisionisti sostengono che Berlinguer ha commesso l’errore storico di non perseguire l’alternativa alla DC. Secondo i revisionisti lo avrebbe fatto per la debolezza della sua cultura istituzionale. Ma dimenticano che il PCI era ancora legato al socialismo reale, che i socialisti italiani pretendevano di guidare l’alternativa di governo, che quando entrerà in crisi il compromesso storico, la “base” e la “nomenclatura” del partito comunista solleciteranno una svolta anti-capitalistica, in contrasto con la strategia riformista. La rottura della “solidarietà” avverrà infatti contro l’adesione al sistema monetario europeo, e poco tempo dopo il partito comunista promuoverà il referendum contro il costo del lavoro. Sono considerazioni insignificanti?
Torniamo al referendum sul divorzio ed alle elezioni regio-nali.
Questa duplice sconfitta metteva i democristiani di fronte ad un bivio: la maggioranza moderata proponeva di consolidare in modo pragmatico i legami con l’area intermedia della società, anche se questa scelta comportava l’indebolimento dei rapporti con l’ispirazione cristiana e con la tradizione popolare del Partito; i cattolici democratici ritenevano invece necessario rinnovare il riferimento ai valori cristiani e stimolare un nuovo rapporto tra le correnti riformiste impegnate nella politica di centro-sinistra, per contrastare la deriva conservatrice cui avrebbe portato la strategia dei moderati. La linea dei cattolici democratici comportava un profondo rinnovamento della DC, che – come dichiarò Aldo Moro – doveva “‘essere opposizione di se stessa” e liberarsi dall’immagine di partito segnato dall’arroganza del potere. Eppure non era possibile abbassare la guardia nei confronti di un partito comunista che non aveva consumato lo strappo con Mosca e che sognava ancora una società socialista.
Come coniugare la continuità dell’ispirazione ed il rinnovamento dell’azione politica? Come arginare il declino eletto-rale, evidente soprattutto sulla sinistra, senza indebolire il ruolo storico di un partito che aveva evitato la radicalizzazione dello scontro sociale e aveva tenuto sul terreno democratico la polemica anticomunista, contrastando le tentazioni reazionarie che covavano nelle viscere del Paese? Oggi si calcolano i costi di quella “politica di mediazione”, e si mettono in evidenza i suoi limiti, ma si ignorano del tutto i risultati cui ha portato, sia in termini di democrazia che di diffusione del benessere. E poi, perché imputare tutti gli errori alla DC, anche quelli (per dirlo con parole di Berlinguer) che non potevano non essere commessi?
In quella situazione, straordinariamente difficile, tormentata dall’affiorare di una violenza che diventerà terrorismo, si delinea la candidatura di Zaccagnini alla guida della DC. Doveva essere una segreteria di “transizione”, verso il congresso del Partito; le circostanze costrinsero Zaccagnini a restare segretario per quattro anni. La “nuova DC”, che recupera tutti i voti persi alle regionali col voto politico del 76, ha il volto di Zac, dell’uomo che un anno prima, parlando come presidente del Consiglio Nazionale, aveva condannato con severità il degrado morale della vita politica. Su questo tema insisterà con decisione, invitando il Partito a ritornare di valori originari ed a comportamenti capaci di fare recuperare la fiducia degli elettori.
Anche la “politica del confronto” esprime un ritorno alle ori-gini, cioè ai valori della Resistenza e della Costituzione, a ciò che poteva unire gli italiani nella lotta contro ciò che cercava di dividerli. Eppure “il confronto” conteneva anche gli elementi essenziali della “sfida” impliciti nella “confrontation” anglosassone; non si trattava di un azzeramento delle differenze ideali e programmatiche, né di un patto fondato sulla debolezza della DC e del PCI. Non si può dimenticare che il voto del ’76, con due vincitori, aveva rafforzato la polarizzazione elettorale e che un nuovo voto avrebbe accentuato questa polarizzazione, e insieme il potere di condizionamento delle “estreme”. D’altra parte, la cronaca di quegli anni dimostra che non si è trattato di un compromesso di potere, ma di una scommessa politica di straordinario valore. Se in quegli anni si fosse inasprito lo scontro sociale e politico, potemmo oggi parlare di “Ulivo”? Lo sottolineo ricordando molto bene che lo svolgimento di quella fase politica fu condizionato dalla strage di via Fani e dall’assassinio di Moro e sapendo che c’è continuità tra una vicenda ormai lontana e la realtà da cui ha preso le mosse la stagione dell’Ulivo.
Per Zaccagnini, la politica del confronto (con la sinistra) è incomprensibile se non è considerata come l’altra faccia della politica del rinnovamento della DC. Ed il rinnovamento morale della politica, che nelle riflessioni di Zaccagnini ha radici nella intransigenza, non comportava affatto una chiusura settaria dei cattolici. Zaccagnini era consapevole della valenza reazionaria del clericalismo, e della subalternità del “gentilonismo” (cioè del trasformismo dei clerico-moderati) agli interessi economici di volta in volta dominanti. Zaccagnini apparteneva, come ha scritto Biagio Bonardi nel suo libro dedicato alla “vitalità interiore della sua fede”, ad una generazione che era giunta alla politica attraverso una severa formazione religiosa e la dura prova della lotta, ad una generazione consapevole della necessità di dare una misura umana alla politica. Zaccagnini aveva compreso che eravamo a un tornante decisivo della storia del cattolicesimo democratico, a un tornante che richiedeva grande coerenza ma altrettanta apertura al dialogo. Si trattava di “superare”, non di negare l’esperienza fatta dopo la Resistenza, nel corso della ricostruzione e poi del lungo cammino verso l’Europa.
Ma su quei temi, come abbiamo già accennato, si misuravano strategie diverse, anche tra i sostenitori della politica di soli-darietà: alcuni si proponevano la “riaggregazione dell’area cattolica”, anche se in una prospettiva che doveva fare i conti con la secolarizzazione; altri ritenevano ormai del tutto consumate le ragioni dell’unità e pensavano che i cattolici più aperti dovevano convergere sui partiti di sinistra, per favorirne l’evoluzione riformista. Dove avrebbe portato la “democrazia compiuta”? E cos’era il “partito diverso” cui pensava Berlinguer?
Molti sono i problemi rimasti. Tuttavia, chi continua a polemizzare contro le radici consociative della “politica del confronto e contro la stagione della solidarietà nazionale, poiché non poneva al primo posto la questione delle riforme istitu-zionali, in realtà ignora la drammaticità di un tempo che ha messo alla prova la stessa democrazia e riduce l’orizzonte della ricerca storica. Si può sostenere che Zaccagnini e Berlinguer sono stati sconfitti; la stessa osservazione è stata fatta per Moro, quando si è affermato che ha pagato con la vita i limiti della sua politica. Ma queste affermazioni non aiutano a delineare una alternativa alle scelte che hanno fatto, e non mettono in campo una politica più “alta” e più lungimirante di quella che ha caratterizzato l’esperienza di una “democrazia difficile”, ma vera e profondamente umana, che ha lasciato un’impronta nel nostro modo di pensare la politica. Quella politica aveva un’anima.