C’è un silenzio sospeso come un temporale in arrivo. È quello di tanti ragazzi che, giorno dopo giorno, svaniscono agli occhi del mondo. Non sono fuggiti lontano, non si sono persi nel caos delle città. Si sono semplicemente chiusi in una stanza. Una porta che si chiude, una tapparella abbassata, e poi il tempo che scorre lento, invisibile. Loro sono gli hikikomori, termine giapponese che significa “stare in disparte”, ritirarsi dal mondo.
Il fenomeno importato dal Giappone, è in crescita anche in Italia, dove attendibili studi – tra cui quello del CNR – lo danno in aumento.
Non è un capriccio, non è pigrizia. È un dolore che non trova parole, un senso di inadeguatezza che diventa prigione. Spesso sono adolescenti o giovani adulti, fragili equilibristi tra il bisogno di essere accettati e la paura di non essere all’altezza. La scuola diventa un luogo ostile, lo sguardo degli altri un giudizio insopportabile, il futuro un peso insostenibile.
Allora si sceglie il ritiro: la propria stanza come rifugio e confine, il computer come unico ponte col mondo. Le giornate si confondono, le ore si capovolgono, la notte diventa casa. I legami si assottigliano fino a svanire. E il silenzio, da scelta, diventa condanna.
I rischi sono profondi: l’anima si consuma lentamente, il corpo perde contatto con il ritmo della vita, e la mente si nutre di paure. L’isolamento prolungato può generare depressione, ansia, dipendenze. Ma soprattutto, può spegnere quella scintilla vitale che dà senso all’essere giovani: il desiderio di scoperta, di incontro, di sogno.
Eppure, dietro ogni porta chiusa, c’è una storia che chiede ascolto. Un dolore che ha bisogno di voce. Famiglie, scuole, comunità hanno il dovere di accorgersi, di tendere la mano senza invadere, di esserci senza forzare. Non servono urla, ma presenze pazienti.
Gli hikikomori non sono fantasmi: sono figli del nostro tempo, spesso troppo veloce, troppo esigente, troppo connesso eppure incapace di vera relazione. Riscoprirli, accompagnarli, significa guardare più a fondo dentro le crepe della nostra società e provare a guarirla, un abbraccio alla volta.
Forse non basta bussare. Forse serve restare, anche fuori da quella porta chiusa, come si resta accanto a un fiore che non sboccia, aspettando la stagione giusta. Perché ogni silenzio ha dentro un nome che vuole essere chiamato con dolcezza. E anche nel buio più fitto, c’è sempre una fessura da cui può entrare la luce. Basta non smettere di cercarla.