La pandemia ha avuto notevoli effetti sul mondo del lavoro, non solo in Italia. Il primo più evidente è stato quello di distruggere milioni di posti di lavoro colpendo soprattutto settori come turismo, servizi e intrattenimento e categorie di lavoratori  “fragili”: precari per lo più giovani e donne.  Ma a questi effetti che sono stati visibili già nel primo anno di pandemia e nonostante le misure messe in campo se ne aggiungeranno, a breve, quelli non visibili, altri non direttamente collegati agli effetti della pandemia ma comunque da essa causati. Questi effetti possiamo riassumerli per semplicità nell’accelerazione di tutta una serie di cambiamenti che erano già nell’aria ma che a causa del Covid invece di dispiegarsi in un arco di tempo dilatato, produrranno effetti e cambiamenti nel breve periodo. L’effetto acceleratore della pandemia porterà a una spinta di molti settori verso una maggiore automazione e digitalizzazione dei processi produttivi o comunque delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.

Questi effetti non saranno indolore. Uno studio della società di consulenza Mckinsey ha calcolato che in virtù di questi effetti, diretti e indiretti, nel mondo ci sarà un +25% di lavoratori, rispetto alle stime pre covid, che dovranno cercarsi un nuovo posto di lavoro o che per mantenere quello che hanno dovranno investire fortemente in attività di reskilling e upskilling. Altro effetto non necessariamente negativo del covid è stato il boom del lavoro agile, smart working. La pandemia in Italia ha costretto a seguito del lockdown molte aziende e molti lavoratori a lavorare da remoto. Alcuni erano già pronti altri non proprio e gli effetti si sono visti. Lo smart working teoricamente è diverso da quello che abbiamo visto e vissuto in questi mesi in Italia. Non è una mera prestazione di lavoro svolta da casa, è molto di più: è la libertà di scegliere come alternare il posto, le modalità, gli strumenti e il tempo di lavoro.  Ma si sa in tempo di emergenza si fa di necessità virtù. Però passata l’emergenza lo smart working probabilmente resterà come forma di lavoro, non dominante, ma certamente non residuale come nel periodo pre covid. Per questo sarebbe opportuno iniziare a immaginare come traghettare il nostro modello di smart working nel nuovo mondo. Alcune indicazioni le offre l’esperienza appena trascorsa,  fornendo anche utili obiettivi a cui puntare. Ne evidenzio per brevità tre.

Il primo. Lo smart working nella legge che lo istituiva, 81/2017, era immaginato principalmente come uno strumento residuale a disposizione delle imprese per aumentare il benessere e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei propri dipendenti. Diciamo era una via di mezzo tra uno strumento di welfare e una sorta di benefit. Per questi motivi era rimesso alla contrattazione individuale. Adesso tutto ciò va superato. Non sarà più uno strumento residuale con quelle caratteristiche ma sarà sempre più uno strumento di organizzazione del lavoro a cui le imprese ricorreranno molto più spesso e non riguarderà singoli dipendenti ma probabilmente intere strutture o reparti aziendali. Per questo serve uno scatto in avanti affidandone alla contrattazione collettiva e non più individuale la regolamentazione.

Il secondo obiettivo da perseguire è quello di affrontare a monte la questione del “diritto alla disconnessione”.  La legge istitutiva del lavoro agile prevede il diritto alla disconnessione. Certo si possono apportare migliorie. Ma il vero problema personalmente è di altra natura. Il diritto alla disconnessione è utile per limitare l’abuso del tempo del lavoratore in smart working. Ma se ci troviamo a dover affrontare questo problema allora non si sta cogliendo in pieno l’innovazione del lavoro agile ma stiamo ancora ragionando di lavoro da casa. Ci vuole un netto cambio di passo  nell’organizzazione del lavoro da parte delle imprese, organizzazione che risente troppo di alcune vecchie impostazioni: la cultura del controllo, la tendenza a interminabili quanto spesso inutili briefing o se preferite riunioni per fare il punto. L’organizzazione del lavoro con lo smart working deve incentrarsi su una maggiore autonomia del lavoro, si deve passare da un monitoraggio giornaliero a un monitoraggio dei risultati: il lavoro va valutato non con il tempo della prestazione ma sulla sua efficacia, quindi per obiettivi. Quindi il vero obiettivo è liberare l’autonomia dei lavoratori e non regolamentare il diritto alla disconnessione cercando di limitare l’abuso del tempo da parte del datore di lavoro incapace di immaginare un’organizzazione del lavoro moderna e funzionale al vero smart working.

Il terzo spunto è quello di evitare che lo smart working diventi uno strumento di discriminazione tra i lavoratori. Discriminazione di genere in primis. E i dati di questo ultimo anno devono farci seriamente riflettere. Discriminazione tra lavoratori che possono lavorare in smart working e funzioni lavorative che sono impossibilitate. Questo è un aspetto dirimente da entrambi i punti di vista. Chi usufruisce dello smart working non deve vedere precluse le sue possibilità di carriera e serve anche una contrattazione collettiva che ne bilanci gli effetti anche in termini di benefits, buoni pasto e straordinari in primis. Dall’altro lato, per chi invece non può lavorare in smart working il problema è di natura diversa in quanto rischia di non beneficiare dei suoi indubbi risvolti positivi, sia in termini di cambio culturale del modello di organizzazione del lavoro stesso, sia in termini di benefici per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

Le parti sociali hanno la possibilità di trovare la quadratura del cerchio, ma serve avere la visione del dopo liberandosi da vecchi retaggi e passati ancoraggi culturali.