Un lettore mattiniero avrebbe colto stamane su Repubblica l’intervista a Calenda e ne avrebbe tratto l’impressione di una chiara svolta a sinistra. Forse è per questo che, quasi in tempo reale, il leader di Azione si è affrettato a correggere il tiro su Twitter. “Con le altre opposizioni – si legge in questa specie di corollario all’intervista – si può collaborare su salario minimo, sanità e industria 4.0, così come con la maggioranza su giustizia e politica energetica. Ma rimaniamo distanti da destra e sinistra. Siamo un centro repubblicano che ha l’obiettivo di chiudere il bipolarismo”.
Il proposito cozza con la realtà. L’impressione è che l’impianto complessivo della politica calendiana generi fatalmente confusione. Da qui la stessa evanescenza del cosiddetto “centro repubblicano”, metafora di un ritorno al partito che fu di La Malfa, magari con un certo rimando all’azionismo, ma senza la chiarezza e la coerenza che impastavano la condotta di La Malfa.
Non basta il riferimento ai contenuti e al valore dei programmi, se tutto si concentra in un dinamismo senza meta, con effetti di instabilità e mutevolezza nelle scelte contingenti. Calenda propone qualcosa che sfugge alla percezione degli interlocutori: il suo richiamo al merito delle questioni si rovescia instancabilmente nell’appropriazione di un merito personale o di partito, per farne una questione politica.
Di chiaro c’è solo, in questo orizzonte poco chiaro, la polemica con Renzi: più viene allontanata e più ritorna, come l’assillo di una pittima. Sta di fatto che la pubblica opinione dà segni di una qualche insofferenza. Ci sarebbe lo spazio per un centro nuovo, con radici antiche, quindi solido in virtù di grandi e riconosciute motivazioni ideali; ma lo sfolgorio di una dialettica sui dettagli, perennemente alla ricerca dei distinguo che possano giustificare la fuga nell’egocentrismo, è fonte di disagio per un elettorato pur sensibile alla suggestione di un progetto politico di centro.
Le vacanze si avviano al termine, ma sullo sfondo rimangono pertanto i dubbi, già vistosi a ridosso della pausa estiva, sulla scommessa di Calenda. Il movimentismo non è una politica, né lo è il gioco di specchi della personalizzazione del confronto, senza premura per un quadro più generale e dunque più inclusivo. Questa deriva, frutto dell’alterazione di un autentico disegno neo riformatore, trascina la speranza nella palude della mistificazione.