Fra i temi politici più dibattuti dell’estate possiamo sicuramente annoverare l’autonomia differenziata. Quando è iniziata la raccolta di firme per il referendum abrogativo, fra i promotori non mancava qualche preoccupazione: occorreva presentarle entro il 30 settembre – altrimenti il referendum sarebbe scivolato al 2026 – e c’era a disposizione un tempo limitato. In piena estate, la risposta dei cittadini è stata sorprendente. Cinquecentomila sottoscrizioni in poche settimane, anche grazie alla possibilità di aderire online, e ora i promotori puntano a superare il milione. È significativo che le firme non siano venute solo dalle aree meridionali, ma in misura significativa dal resto del Paese. Non siamo di fronte a una nuova contrapposizione fra Sud e Nord, ma a qualcosa di più articolato, che va compreso.
Il tema dei divari territoriali e delle politiche regionali ha una indiscutibile complessità. Sono diversi gli Stati europei che negli ultimi anni hanno dovuto affrontarlo: Belgio, Gran Bretagna, Spagna, Germania e non solo. Per l’Italia è una sfida di lungo periodo. Nella nostra storia c’è un anniversario che offre diversi spunti per capire meglio il dibattito sull’autonomia e l’importanza del consenso dei cittadini. Si tratta dello scioglimento della Cassa per il Mezzogiorno, avvenuto quarant’anni fa, nell’estate del 1984.
Questo ente venne ideato da tecnici come il meridionalista Pasquale Saraceno e il governatore della Banca d’Italia Donato Menichella che, insieme ad altre figure autorevoli, dopo la Seconda guerra mondiale avevano dato vita alla Svimez per elaborare progetti di sviluppo per il Mezzogiorno. Dal punto di vista politico la decisione di costituire la Cassa fu soprattutto di Alcide De Gasperi. Lo statista trentino intendeva affrontare la profonda arretratezza dell’area meridionale: forte disoccupazione, scarsa scolarizzazione, elevata pressione demografica, agricoltura povera, condizioni di vita molto dure.
La Cassa venne costituita nel 1950. In quegli anni i governi guidati dal leader democristiano avvertivano l’esigenza di realizzare riforme incisive per dare un segnale al Paese, afflitto da gravi bisogni sociali. Nello stesso periodo vennero approvati il Piano Ina casa, voluto da Amintore Fanfani per rispondere alla carenza di alloggi, e la riforma agraria, per distribuire ai braccianti la terra espropriata ai grandi latifondisti. La questione meridionale era un tema centrale per tutte le forze politiche, sindacali e sociali (pur essendoci divergenze sulle ricette da applicare): il ritardo del Sud non era considerato un problema solo di chi vi risiedeva, ma dell’intero Paese. La Cassa, dotata di risorse finanziarie significative, rappresentava in qualche modo il simbolo della volontà di cambiare il Sud, di forzarne lo sviluppo, di assumere il suo ritardo come un grande problema nazionale.
Il nuovo organismo non era pensato come un ente permanente ma con una durata di dieci anni (anche se poi venne prorogata più volte dal Parlamento). In poco tempo diede avvio ad un immenso piano di interventi per la modernizzazione dell’agricoltura, con la realizzazione di acquedotti, miglioramenti fondiari, fognature, ma anche di grandi investimenti nelle infrastrutture civili, come ferrovie e strade. Alcuni anni più tardi per la Cassa divenne centrale lo sviluppo industriale, cruciale per rispondere all’altissima disoccupazione e ridurre il divario. I risultati furono notevoli, come riconobbe nel 1963 Indro Montanelli, figura non sospettabile di simpatie per l’intervento dello Stato, in un’inchiesta pubblicata sul «Corriere della Sera». Non mancava qualche elemento di inefficienza, ma risultavano secondari di fronte ai risultati che il Sud e il Paese stavano conseguendo. Fra l’altro, va ricordato, sin dal 1950 erano stati adottati dal Parlamento provvedimenti anche per le aree depresse del Centro Nord.
Perché un ente così utile allo sviluppo del Sud divenne un “carrozzone”, come viene spesso definita la Cassa dagli organi d’informazione? Prima di rispondere, lo storico non può non osservare che si tratta di una definizione troppo parziale, dimentica di almeno due decenni di ottimi risultati per l’agricoltura e l’industria. Tornando alla domanda, la prima causa furono proprio le Regioni. Istituite nel 1970, assunsero un ruolo importante nella gestione della Cassa e in poco tempo favorirono un approccio poco tecnico e molto politico. Ciascuna puntava a investimenti solo sul proprio territorio, spesso con finalità soprattutto clientelari, finendo per indebolire sia la strategia d’insieme della Cassa sul Mezzogiorno e sui bisogni del Paese, sia l’efficacia dei singoli interventi.
Le Regioni ebbero quindi un ruolo decisivo per politicizzare la gestione della Cassa nel senso peggiore del termine, rendendola sempre meno efficiente. Mentre si discute di autonomia regionale differenziata la vicenda fa riflettere. Non perché autonomia e trasferimenti di competenze siano necessariamente negativi, ma perché i rischi potenziali vanno considerati. E viene da chiedersi se il trasferimento di materie come l’energia o le infrastrutture a tanti organismi territoriali diversi potrà favorire una gestione efficiente per il Paese (e per le Regioni). Anche alla luce degli undici piani di rientro collezionati dalle sanità regionali in un paio di decenni.
La crisi energetica seguita allo shock petrolifero del 1973 rese la situazione ancora più difficile. Perché mise in seria difficoltà gli investimenti effettuati dallo Stato al Sud – concentrati soprattutto sull’industria di base che risultò la più penalizzata – mentre emergevano nuovi competitors nei Paesi di recente industrializzazione. Ma anche per la perdita di consenso l’intervento straordinario nel Mezzogiorno che si manifestò a partire dalla seconda parte degli anni Settanta, quando la crisi colpì anche le regioni del Nord causando ristrutturazioni e licenziamenti.
Ci fu poi un ulteriore problema. Fino a quel momento c’era un disegno molto chiaro per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno: aumentare la capacità produttiva del Paese collocando al Sud gli impianti di nuova costruzione. Dopo la crisi energetica l’obiettivo non fu più l’ampliamento degli impianti, ma la riconversione di quelli esistenti per renderli più competitivi. L’Italia rimase senza una strategia efficace per le aree meridionali, mentre le risorse destinate al Sud andavano in larga parte sprecate e il divario col Nord tornava a crescere. Nuove idee e proposte furono elaborate da parte di policy makers, economisti, esponenti di sindacati e partiti, ma senza risultati significativi.
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