Il problema del Pd e la debole risposta di Zingaretti

Pubblichiamo un intervento di Giuseppe Fioroni tratto dall’edizione di ieri di Huffington Post

Nel dibattito sul futuro del Partito Democratico manca tuttora l’identificazione del suo problema ideale, come se il congresso fosse chiamato soltanto a correggere alcune distorsioni organizzative, per rigenerare così lo spirito incorrotto delle origini.

Invece non si tratta di rimuovere qualche grande o piccola incrostazione, ma di riorganizzare lo schema della politica democratica e riformatrice. Stare all’opposizione obbliga a compiere un esame di coscienza rigoroso. Se il punto diventa il “rinverdimento” della sinistra, la distorsione si palesa con immediatezza. Il Partito Democratico è nato per avvicinare il centro e la sinistra, immaginando di trovare nell’incontro di culture politiche diverse un principio di rinnovamento generale.

Abbiamo provato a farlo e ci siamo accorti, alla resa dei conti, di averlo fatto perlomeno con superficialità, mettendo insieme i punti di debolezza anziché di forza, e cioè i punti che nel passato hanno inciso negativamente sulle distinte tradizioni culturali.

Ora, soprattutto di fronte alla candidatura di Nicola Zingaretti, monta il sospetto che del retaggio improprio del passato – non di quello nobile – si voglia prendere comunque la linfa residua, mescolando un po’ di egemonismo di estrazione gramsciana, un po’ di volontarismo cattolico, un po’ di eclettismo liberal-liberista.

E quindi di ogni posizione un “ismo”, inteso come deformazione del vero substrato ideale e politico; un “ismo” ripetuto, che invece di essere emendato diventa, nella somma delle singole negatività stratificate, l’elemento destinato a mortificare il nuovo progetto politico. Cosa può produrre una tale operazione? Nulla, in effetti; nulla che appaia suscettibile di essere creduto come leva di rinnovamento; nulla di adeguato rispetto alla sfida del populismo postdemocratico, degradante sulla scia di molte manifestazioni ad antidemocratico. Potrebbe al più considerarsi come una elegante e pericolosa retromarcia per passare, con l’innesto di una “S”, dal Pd al PDS.

Da ciò deriva, a mio avviso, la cedevolezza al mix di arroganza e confusione della maggiorana giallo-verde. Non c’è lo sforzo di prendere congedo da formule consunte, come si evince, ad esempio, dall’amorfa collocazione nel perimetro del socialismo europeo. Si dovrebbe riaprire, a tal proposito, un dibattito più sereno e produttivo. Abbiamo sprecato l’opportunità di fare del Partito democratico ciò che oggi il macronismo, non senza contraddizioni e insufficienze, propone per l’avvenire dell’Europa

È questo l’orizzonte della nuova proposta politica? È evidente che non lo sia e non lo debba essere. Si trascura, altresì, la ricerca di un dialogo con milioni di elettori astensionisti, quasi che bastasse, viceversa, ricondursi al possibile abbraccio con i fuorusciti dai ranghi del partito, con risultati per essi non certo entusiasmanti. Come pure, infine, censurando le oneste espressioni di coscienza su temi delicati – il caso di Verona insegna – non solo si cancella il carattere plurale del partito, ma soprattutto si getta all’ortiche la ricerca di un comune sentire sulla “questione antropologica” del nostro tempo, certo non derubricabile per i cattolici.

Sono osservazioni che meriterebbero più spazio e più approfondimento. Gli slogan non servono, lo dico appunto a Zingaretti. Bisogna pensare, piuttosto, a una verifica severa e ad ampio spettro della crisi del Partito democratico, riconoscendo che l’accanimento attorno alle procedure di semplice restauro del passato, ovvero del passato che piace a qualcuno di noi, non ci consegnano oggi, né ci consegneranno domani un partito più florido e più attraente.