Nel dibattito sul futuro del Partito Democratico manca tuttora l’identificazione del suo problema ideale, come se il congresso fosse chiamato soltanto a correggere alcune distorsioni organizzative, per rigenerare così lo spirito incorrotto delle origini.
Invece non si tratta di rimuovere qualche grande o piccola incrostazione, ma di riorganizzare lo schema della politica democratica e riformatrice. Stare all’opposizione obbliga a compiere un esame di coscienza rigoroso. Se il punto diventa il “rinverdimento” della sinistra, la distorsione si palesa con immediatezza. Il Partito Democratico è nato per avvicinare il centro e la sinistra, immaginando di trovare nell’incontro di culture politiche diverse un principio di rinnovamento generale.
Abbiamo provato a farlo e ci siamo accorti, alla resa dei conti, di averlo fatto perlomeno con superficialità, mettendo insieme i punti di debolezza anziché di forza, e cioè i punti che nel passato hanno inciso negativamente sulle distinte tradizioni culturali.
Ora, soprattutto di fronte alla candidatura di Nicola Zingaretti, monta il sospetto che del retaggio improprio del passato – non di quello nobile – si voglia prendere comunque la linfa residua, mescolando un po’ di egemonismo di estrazione gramsciana, un po’ di volontarismo cattolico, un po’ di eclettismo liberal-liberista.
E quindi di ogni posizione un “ismo”, inteso come deformazione del vero substrato ideale e politico; un “ismo” ripetuto, che invece di essere emendato diventa, nella somma delle singole negatività stratificate, l’elemento destinato a mortificare il nuovo progetto politico. Cosa può produrre una tale operazione? Nulla, in effetti; nulla che appaia suscettibile di essere creduto come leva di rinnovamento; nulla di adeguato rispetto alla sfida del populismo postdemocratico, degradante sulla scia di molte manifestazioni ad antidemocratico. Potrebbe al più considerarsi come una elegante e pericolosa retromarcia per passare, con l’innesto di una “S”, dal Pd al PDS.
Da ciò deriva, a mio avviso, la cedevolezza al mix di arroganza e confusione della maggiorana giallo-verde. Non c’è lo sforzo di prendere congedo da formule consunte, come si evince, ad esempio, dall’amorfa collocazione nel perimetro del socialismo europeo. Si dovrebbe riaprire, a tal proposito, un dibattito più sereno e produttivo. Abbiamo sprecato l’opportunità di fare del Partito democratico ciò che oggi il macronismo, non senza contraddizioni e insufficienze, propone per l’avvenire dell’Europa
È questo l’orizzonte della nuova proposta politica? È evidente che non lo sia e non lo debba essere. Si trascura, altresì, la ricerca di un dialogo con milioni di elettori astensionisti, quasi che bastasse, viceversa, ricondursi al possibile abbraccio con i fuorusciti dai ranghi del partito, con risultati per essi non certo entusiasmanti. Come pure, infine, censurando le oneste espressioni di coscienza su temi delicati – il caso di Verona insegna – non solo si cancella il carattere plurale del partito, ma soprattutto si getta all’ortiche la ricerca di un comune sentire sulla “questione antropologica” del nostro tempo, certo non derubricabile per i cattolici.
Sono osservazioni che meriterebbero più spazio e più approfondimento. Gli slogan non servono, lo dico appunto a Zingaretti. Bisogna pensare, piuttosto, a una verifica severa e ad ampio spettro della crisi del Partito democratico, riconoscendo che l’accanimento attorno alle procedure di semplice restauro del passato, ovvero del passato che piace a qualcuno di noi, non ci consegnano oggi, né ci consegneranno domani un partito più florido e più attraente.