Il pensiero di Giovanni Gentile ha “curvato” molta parte della filosofia italiana. E questo è sorprendente in almeno due casi, il pensiero cattolico e quello comunista. Strano destino per colui che aveva inteso riportare il Dio cui si appella la religione all’atto assoluto del pensiero dell’io, e che voleva fermare con la filosofia attualista il pericolo avanzante del materialismo e del bolscevismo.
Gentile (nato il 29 maggio 1875) è un filosofo — un filosofo “vero”, affrettatamente condannato e archiviato come filosofo fascista o filosofo del fascismo. Che peraltro è una definizione vera, ma nel senso inverso a come la si intende di solito: non è il fascismo che ha ispirato o condizionato la sua filosofia, ma è il suo impegno estremo con il pensiero che lo porta alla pretesa (o all’illusione) di essere la guida “spirituale” del regime in un momento oscuro e tempestoso dell’Italia e del mondo.
Era la stessa pretesa e la stessa illusione che un altro pensatore radicale, Martin Heidegger, aveva nutrito nei confronti del nazionalsocialismo, e che a differenza di Gentile era andato a sfracellarsi contro quel regime che ben presto lo aveva a sua volta osteggiato. Ma la differenza tra i due casi non sta solo nei rispettivi contesti, bensì anche nel fatto che Heidegger vuole pensare la differenza irriducibile e misteriosa dell’essere e dell’ente, comprendendo il pensiero umano come il luogo in cui risuona l’appello dell’essere che si ritrae, mentre Gentile vuole come sciogliere la verità dell’essere nell’atto puro e assoluto del pensiero che lo pensa.
E forse anche questo spiega perché Heidegger si ritirerà sdegnato dall’organizzazione nazionalsocialista della società e Gentile si immergerà invece nel fascismo sino ad esserne ministro, riformatore istituzionale e formidabile animatore culturale. Ma sempre per un’urgenza del suo pensiero, che rimane inevitabilmente un pensiero della “totalità”. Un idealismo — nato sulla traccia “moderna” di Kant e di Hegel — che intende il pensiero umano come un orizzonte di «assoluta immanenza». È la trascendenza, in qualsiasi forma, da quella divina a quella delle cose del mondo intese come dati oggettivi, il grande avversario del pensiero gentiliano. Essa va sempre superata, non solo riaffermando che l’essere della realtà dipende dal pensiero, ma più radicalmente che l’essere del mondo si identifica con il pensiero stesso. Atto puro che include e abbraccia in sé tutto.
Così scriveva nella sua Introduzione alla filosofia (1913): «La filosofia attualistica è così denominata per il (…) “metodo della immanenza assoluta”», per il fatto cioè che «la sola realtà solida, che mi sia dato di affermare (…) è quella stessa che pensa». Ma la realtà che pensa è tutta «soltanto nell’atto che si pensa». Tutto ciò che “è”, lo è in quanto “pensato”, e al di fuori del pensiero non c’è altro, appunto perché non è pensabile.
Scriverà nella Teoria generale dello spirito come atto puro (1916) che «il pensare è attività e il pensato è prodotto dell’attività, cioè cosa. L’attività come tale è causa sui, e perciò libertà». Il pensiero come atto realizza «sé stesso nell’altro», realizza la sua libertà.
È stato Augusto Del Noce a mostrare (creando non poche polemiche) che è esattamente questa concezione del pensiero come atto puro la nascosta ispirazione della «filosofia della prassi» di Antonio Gramsci, ben più che il filone storicista che risale a Croce. Così che Gentile poteva accompagnare il passaggio dall’idealismo fascista al marxismo post-fascista. D’altronde, a quanto pare, fu lo stesso Lenin ad apprezzare tutto il valore dell’opera giovanile di Gentile su La filosofia di Marx.
Ma anche sul fronte del pensiero cattolico (penso ad autori come Bruno Nardi, Francesco Olgiati e Gustavo Bontadini) il riferimento a Gentile risulterà decisivo, anche se con una diversa pretesa: assumere l’assoluto gentiliano, cioè l’unità di pensiero ed essere, liberandolo dall’immanentismo e ritrovando in esso il riferimento a una fondazione trascendente. Ciò che provocò l’opposizione di Emanuele Severino, il quale voleva riportare Gentile alla sua autentica vocazione, cioè quella dell’assoluta identificazione parmenidea di logos ed essere.
Sono tracce filosofiche che oggi forse si sono un po’ perse. Ma il colpo di scena è che Gentile, quasi fosse uno “spettro”, sta riapparendo in quella recente passione filosofica di diversi contemporanei che risponde al nome di “immanenza assoluta”, come è riproposta nel pensiero di Gilles Deleuze. Nella concezione deleuziana della vita come pura potenza del divenire, movimento che non comincia e non finisce e non può mai oggettivarsi come un “dato”, risuona — non come fonte, ma certo come assonanza — l’atto puro del pensiero gentiliano. Che in questo senso sarebbe forse il punto conclusivo di una traiettoria che da Bruno va a Spinoza, e da Spinoza a Nietzsche. Segno che la potenza del pensiero di Gentile sta in un “problema” estremo e irrisolto del pensiero filosofico.