Articolo pubblicato sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Padre Giulio Albanese
La stampa occidentale quando fa riferimento al musulmanesimo africano, per ragioni anche di cronaca, tende ad associarlo ai fautori del jihad (“la guerra santa”), quelli che hanno dominato la scena internazionale dopo il tragico 11 settembre del 2001. Le azioni terroristiche perpetrate recentemente in Burkina Faso la dicono lunga in riferimento alla gravità della situazione.
In effetti, il tradizionale “Islam afro” a connotazione sufi non sembra più fungere da bastione contro il salafismo e il jihadismo. Lo dimostra il fatto che non pochi paesi dell’Africa sub-sahariana, come ad esempio il Mali, hanno avvertito la necessità di formare le loro aspiranti guide religiose in Marocco; come se la forza di contrasto delle confraternite peul, bambara e maliké disseminate a quelle latitudini non fossero più in grado da sole di contrastare il fondamentalismo.
A Rabat infatti è nato nel 2015 l’Istituto Mohammad vi (visitato lo scorso 30 marzo da Papa Francesco) per la formazione degli imam, dei predicatori preposto all’insegnamento di un Islam moderato, malikita e a connotazione sufi. Non è un caso che proprio nella capitale marocchina sia sorta nel 2013 Mu’minūn bilā hudūd, “Credenti senza confini”, una fondazione la cui sede principale si trova al quarto piano di un palazzo di Agdal, uno dei quartieri moderni di Rabat. Il suo scopo è contribuire alla creazione di uno spazio di dibattito libero intorno ai temi della riforma e del rinnovamento religioso nelle società arabo-islamiche.
Esiste, in effetti, all’interno dell’Islam africano, da oltre un secolo, una variegata corrente di pensiero di matrice riformista che intende fare propri i valori della modernità, con l’intento d’integrarli con la sana tradizione islamica. Ciò che sorprende, purtroppo, è che a partire dalla tragedia delle Twin Towers, le democrazie occidentali abbiano spesso trascurato (se non addirittura ignorato) questa intelligentia islamica moderata. Essa infatti potrebbe rivestire un ruolo rilevante nelle relazioni tra Oriente e Occidente.
D’altronde, è bene rammentarlo, fu proprio in Africa — e più precisamente in Egitto — che si sviluppò il pensiero rivoluzionario islamista che ha poi contaminato l’intero mondo arabo: quello di Sayyd Qutb. Nato all’inizio del Novecento nell’alto Egitto, venne fatto arrestare dal presidente Gamal Abd el-Nasser per la violenza eversiva delle sue idee, anche se poi gli anni di prigionia resero le sue idee ancora più radicali e soprattutto fruibili. L’impiccagione di Qutb, il 29 agosto del 1966, illuse il regime nasseriano di aver liberato l’Egitto dal pensiero sovversivo. Ma non fu così. Da rilevare che la parola chiave per comprendere l’insegnamento di Qutb, padre riconosciuto del fondamentalismo è jahiliyyah che nel linguaggio islamico indica l’epoca dell’ignoranza, cioè quella precedente la rivelazione coranica.
Per Qutb la jahiliyyah consisteva nel mancato riconoscimento dell’autorità di Dio sull’uomo. Questa deficienza, a suo parere, accomunava tra loro i sistemi democratici, il comunismo sovietico, i regimi arabi, opponendoli al vero Islam, quello che il jihad doveva imporre nelle istituzioni degli Stati e delle Nazioni. Pertanto, Qutb riteneva fosse necessario rovesciare con le armi i regimi arabi contaminati dall’ignoranza. Come i sistemi democratici e comunisti, anche i regimi arabi d’allora, filo-occidentali o filosovietici, seguivano per Qutb leggi umane e non la legge divina, quindi erano da combattere in quanto usurpatori. Il vero Stato islamico, secondo Qutb, era il solo capace di redimere il mondo dalla jahiliyyah, riconsegnando a Dio il potere degli usurpatori, attraverso l’imposizione della suprema legge, la shari’a. Il pensiero del sunnita Qutb pose così le basi di un’ideologia sovversiva che ha prima contaminato il Medio Oriente, ma successivamente ha interessato il continente africano, proponendosi come paradigma di una visione teocratica totalitaria e violenta.
A questo indirizzo delirante si sono opposti non pochi intellettuali musulmani come il giurista egiziano Ali ‘Abd al-Raziq (1888-1966) che difese la separazione dell’Islam (inteso come religione) dallo Stato o il suo connazionale Sayyed al-Qimanî, che difese l’importanza del razionalismo, affermando che esso è patrimonio della tradizione islamica, riferendosi non solo al pensiero del filosofo Averroè, ma addirittura spiegando come un certo tipo di analisi razionale delle situazioni fosse una delle caratteristiche proprie del Profeta Mohammed. La parola del Corano, infatti, secondo Sayyed al-Qimanî si deve storicizzare incarnandola negli avvenimenti e non mantenendola in uno stato di astrazione e ripetitività come vorrebbero i fautori del jihadismo.
Un altro intellettuale che ha invocato il rinnovamento è stato l’egiziano Khalîl ‘Abd al-Karîm che ha presentato la propria lettura del passato millenario del musulmanesimo, basandosi direttamente sulle fonti storiche dell’Islam, in contrapposizione alla visione fondamentalista degli estremisti. E cosa dire dell’intellettuale tunisino Mohammed Talbî, considerato uno dei pensatori critici più ragguardevoli del mondo arabo? Denunciando gli studiosi religiosi islamici tradizionali, egli ha sostenuto con forza la necessità di una lettura contemporanea del Corano, ricordando, quasi provocatoriamente che «quando si rompono le penne, non rimangono che i coltelli».
Avvincente è anche il pensiero di Mohammed Arkou, scomparso nel 2010, considerato uno dei padri del dialogo interreligioso. Professore emerito di Storia del pensiero islamico alla Sorbona di Parigi, Mohammed Arkoun ebbe il merito di evidenziare le tensioni e le inquietudini presenti nel mondo arabo. Di nazionalità algerina, egli è passato alla Storia come strenuo difensore della modernità e dell’umanesimo islamico. Per non parlare di un personaggio del calibro del premio Nobel per la Letteratura, l’egiziano Nagîb Mahfûz, morto nel 2006 alla veneranda età di novantaquattro anni. Fautore di una religione tollerante e progressista, in aperto contrasto con le tendenze estremiste che inneggiano all’odio contro l’Occidente, aveva compreso che la missione dello scrittore consiste anzitutto e soprattutto nell’essere coscienza critica del popolo a cui appartiene. Ciò che colpisce di più leggendo le sue opere è il sano realismo che lo porta al superamento di ogni fanatismo ideologico e religioso. Si considerava un portavoce del “Terzo Mondo” e auspicava — sono sue testuali parole — «una pulizia morale» della società contemporanea, nella consapevolezza che, nell’eterna lotta tra il bene e il male, il bene avrebbe comunque prevalso. Nagîb Mahfûz si opponeva dunque alla dottrina dello scontro delle civiltà, aborrendo le ideologie astratte e tifando per l’uomo della strada all’insegna della tolleranza. Un’altra figura straordinaria è quella di Mahmoûd Mohammed Taha, giustiziato dal presidente sudanese Gaafar Nimeiri il 18 gennaio 1985. Il suo era un nuovo modo di rileggere il Corano che portava alla netta separazione tra la dimensione religiosa della rivelazione coranica, universalmente valida e immutabile, e quella politica, legata alle situazioni storiche e dunque mutevole. Mohammed Taha proponeva pertanto la riconciliazione dell’Islam con la libertà di religione, con i diritti umani e l’uguaglianza dei sessi. Per questa sua visione di grande apertura e dialogo venne tacciato di apostasia e pagò con la vita. È anche importante ricordare il pensiero di Abdelwahab Meddeb, nato a Tunisi e professore di letteratura comparata all’Università di Paris x – Nanterre. Meddeb, scomparso nel 2014, con grande perspicacia, analizzò le contraddizioni e i limiti dell’Islam salafita e, in particolare, le ragioni del latente scontro di civiltà con l’Occidente. Ne “La malattia dell’Islam” stigmatizzò l’ottusità dei fondamentalisti che guardano all’Occidente come alla causa di tutti i mali.
Naturalmente vi sono tanti altri nomi illustri che potrebbero essere aggiunti a questo breve excursus, da Nasr Abû Zayd a Fu’âd Zakarivva, ambedue egiziani. Si tratta di personaggi che, molte volte a rischio della propria vita, hanno difeso la legittima istanza di una lettura critica dei testi religiosi, distinguendo, come scrive padre Giuseppe Scattolin, comboniano, membro dell’Accademia della lingua araba del Cairo, «il messaggio di base — fondato sui valori come giustizia, libertà, uguaglianza, separazione fra religione e politica — dalle norme concrete, non di rado tribali e discriminanti, che fanno parte del contesto storico in cui la rivelazione è avvenuta, e quindi non vincolanti per tutti i tempi e i luoghi. Tali norme riguardano soprattutto il diritto personale, familiare, ereditario, ecc.».
Il fatto, dunque, che una prospettiva innovativa sia stata esplicitamente formulata e proposta da pensatori musulmani seri e impegnati, come quelli sopra ricordati, prova — come spiega sempre padre Scattolin — «che una riforma è possibile anche nell’Islam. Tali persone vanno aiutate e incoraggiate; e se trovano difficoltà nei loro Paesi, dovrebbero trovare fra noi un sostegno amico».