Delle tante forme assunte dalla crisi italiana, quella più radicata è l’astensionismo, espressione della crescente sfiducia degli italiani nei confronti dei partiti. Perché la crisi dei partiti è anche la crisi della democrazia.
Storicamente i partiti nascono come anello di congiunzione tra il corpo elettorale e le istituzioni democratiche rappresentative. All’indomani dell’unità d’Italia, con una legge elettorale che attribuiva il diritto di voto ai cittadini di sesso maschile di età superiore ai venticinque anni e con determinati requisiti di censo, questa funzione era svolta dai Prefetti. Già con la legge elettorale del 1881 e con l’allargamento del suffragio elettorale e, quindi, con l’emersione di nuovi gruppi di interessi, i partiti iniziano a svolgere una vera e propria funzione di mediazione tra gli interessi dei cittadini e le istituzioni.
Verso la fine degli anni Cinquanta del Novecento compaiono due saggi sulla soppressione dei partiti politici, uno a firma di Simone Weil, l’altro di Adriano Olivetti. Seppur sorrette da differenti motivazioni, i due saggi teorizzano una democrazia senza partiti. Ebbene, a Costituzione invariata, la questione non è quella di una democrazia senza partiti, ma di partiti senza democrazia, di partiti costruiti dal capo. Riprendendo le riflessioni di Giorgio Merlo pubblicate nei giorni scorsi, i partiti personali contribuiscono sicuramente a generare col tempo la sfiducia degli elettori. E la legge elettorale per il rinnovo del Parlamento, dove il parlamentare è semplicemente un nominato, contribuisce ad incrementare l’astensionismo. Come uscirne? Innanzitutto con una riforma elettorale che consenta agli elettori di esprimere la propria preferenza per il proprio candidato. Ma ciò non basta a ridurre l’astensionismo che si registra nelle altre competizioni elettorali, dove vigono differenti sistemi elettorali.
È necessario, allora, che si ritorni ad avere fiducia nei partiti. E ciò può essere possibile soltanto costruendo partiti che non siano espressione di un capo, ma di valori radicati nella cultura del popolo. Solo con una rinnovata fiducia nei partiti, si potrà tornare a sperare. Perché ciò che si avverte nei giovani, nelle famiglie e negli anziani è l’assenza della speranza. Ernst Bloch ci insegna che la speranza ha a che fare con il futuro. E ciò che deve distinguere la politica di centro dal populismo o dal sovranismo o, ancora, da una sinistra priva di identità che sembra inseguire i populisti è proprio la capacità di guardare al futuro e non al contingente senza mettere in discussione i principi della democrazia né distruggere con riforme la Costituzione. Già, la carta costituzionale deve essere il faro per consentire ai cittadini di tornare a sperare. Quella Costituzione che recepisce il personalismo cattolico di Mounier e di Maritain. Quella Costituzione che sancisce il principio solidaristico che i populismi oscurano o ignorano con la costante costruzione del nemico, la cui espressione più evidente è un inedito populismo penale.
Pertanto, occorre costruire un partito che recuperi la fiducia perduta. E in questo percorso costituente i principi fondamentali della Costituzione sono una difesa appassionata di una dignità che la politica non può abbandonare. È la dignità della persona, intesa da Rosmini come l’essere che entra in relazione con altri, e che si contrappone all’individuo, essere chiuso, isolato, che considera l’altro un nemico. E, allora, la centralità della persona e la solidarietà, in quanto valori universali, devono ispirare un nuovo modo di intendere il partito. E la politica.