Senza un alternativa al centro e a sinistra vincerà l’astensionismo

C’è un elettorato che potrebbe essere attratto da una seria proposta di centro-sinistra, posta la deriva a destra cui la pressione di Salvini rischia di condurre la Meloni e il suo partito.

La recente votazione parlamentare sul MES ha delineato in maniera netta una divisione di campo assai chiara, di natura squisitamente politica in quanto fondata su un tema dirimente, non legato alla spicciola e spesso vuota conflittualità verbale ad uso social nella quale i partiti si esercitano quotidianamente nel disinteresse sostanziale dei cittadini italiani.

Al di là della sua valenza propriamente tecnica la questione verteva sulla visione che si ha dell’Unione Europea e del suo futuro, proprio alla vigilia del rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Ne è uscito un quadro limpido, che solo l’ottusità degli attuali attori politici si rifiuta di trasformare in un disegno politico per quanto pure ad essi risulti evidente, tanto è cristallino.

Trascinata dai suoi demoni del passato e preoccupata dalla concorrenza a destra che l’irrequieto Salvini ha deciso di portarle con una determinazione pari forse solo al suo terrore di non riuscire più a recuperare il consenso perduto, Giorgia Meloni ha abbandonato – tatticamente? questo non si sa – il progetto al quale lavorava da quando si è insediata a Palazzo Chigi, ovvero la sua integrazione nei salotti buoni dei palazzi europei e la progressiva costituzione di un raggruppamento conservatore continentale in grado di competere con il popolarismo moderato in crisi di leadership dopo il ritiro di Angela Merkel e in grado, al tempo stesso, di rafforzarla ulteriormente qui in Italia.

Uno spostamento anche semantico (le parole in politica hanno sempre un valore alto, pure in questi tempi inquinati dal misero vocabolario social), dal ghetto “populista” e “sovranista” alla più nobile aggettivazione “conservatrice”. L’obiettivo sarebbe poi stato di integrare un “nazionalismo” ribadito quasi ossessivamente con un “europeismo” peraltro ancora da definirsi meglio, non appartenendo certamente quest’ultimo alla sua cultura di provenienza, né alla sua storia e né probabilmente ai suoi convincimenti più profondi. Alcune mosse palesemente errate, come il sostegno all’estremismo iberico di Vox invece che al “moderatismo radicale” del Partido Popular, avevano per la verità indebolito, ma non azzerato, la sua lenta ma sicura marcia di avvicinamento verso il suo obiettivo politico, e verso quei salotti.

Il voto contro il fondo salva-stati ha ora interrotto quel percorso avviato a bordo della confortevole vettura della Presidenza del Consiglio e l’ha riportata alla piazza dalla quale era partita e nella quale deve pur tornare di tanto in tanto. Il problema è che quella piazza, come si è visto alla festa annuale di Atreju, è rimasta, nel suo profondo, nazionalista, sovranista e pure un poco populista. Non facilissimo guidarla sul nuovo percorso se a fianco qualcuno cerca di sfilargliela urlando più forte e fregandosene bellamente di qualsiasi reale interesse nazionale, che invece Palazzo Chigi non può, nemmeno volesse, trascurare.

Quel voto ha pure mostrato agli occhi di qualunque osservatore l’ectoplasma di Forza Italia, ora che non c’è più il suo ineguagliabile fondatore. Sarebbe stata un’eccellente opportunità per marcare una distanza vera, politica, dalla Destra, per rafforzare il legame – così spesso rivendicato – col popolarismo moderato europeo e per osare una rinnovata ricerca del consenso in un campo, quello appunto dei moderati, lasciato libero da tutti.

Il voto di astensione – ossia, il non voto, la non decisione – ne ha al contrario sancito l’irrilevanza, il suo semplice essere ancella governativa di una leadership che fatalmente (in assenza di fatti nuovi, di scelte innovative che però a questo punto potrebbero essere prese solo dai figli del fondatore e non certo dal pallido Ministro degli Esteri) è destinata ad assorbirla nel suo più vasto e moderno contenitore. Lasciando così libero uno spazio che torna ad essere disponibile per una formazione europeista moderata e riformista, disponibile a collaborare con la Sinistra non radicale e non massimalista. A conferma che il futuro si gioca in Europa, perché è la politica internazionale a imporlo.

Uno spazio impossibile a non vedersi che però, incredibilmente, le divise e deboli forze “centriste” non riescono a occupare, tutte intente a farsi una mediocre guerra fra di loro. L’insieme di sigle, più o meno recenti, più o meno durature nel tempo, che affollano il cosiddetto “Centro” della geografia politica italiana è talmente vasto da renderne difficile – e probabilmente inutile – la loro elencazione. Chi con un tratto maggiormente identitario – è il caso di quelle d’area cattolica – chi con accenti più pluralistici, tutte queste esperienze si intestano una volontà, una aspirazione – legittima, per carità – alla rappresentanza di quell’elettorato stufo di questo pseudo bipolarismo destra-sinistra che necessita e dunque impone uno scontro permanente, molto spesso intorno a temi di scarso valore effettivo, ora però amplificato dalla logica binaria zero/uno, on/off, yes/no imposta dalla nuova sottocultura digitale. Una volontà alla quale però non sanno far seguire i fatti. Pur di fronte ad un elettorato la cui consistenza è sì difficile quantificare ma che plausibilmente potrebbe raggiungere le due cifre e che, esso pure come quello di altre aree politiche, tende ultimamente a rifugiarsi nell’astensionismo in assenza di un’offerta politica credibile.

Sempre più spesso, credo sia esperienza diffusa, si ascoltano persone in “crisi elettorale”, del tipo “non so davvero per chi votare, la prossima volta”. Un elettorato consapevole che in politica, come nella vita, molto spesso è necessario raggiungere un compromesso (termine non necessariamente negativo, anzi in politica nobilitato da quella che è definita “arte della mediazione”) nell’interesse generale, per fare qualche passo in avanti piuttosto che rimanere fermi scambiandosi reciprocamente l’accusa di immobilismo, di ostruzionismo, di rifiuto del cambiamento. Compromesso che invece non è mai accettabile sui valori ultimi, sui principi costituzionali, sulle questioni di fondo che attengono alla vita umana.

Questo elettorato potrebbe anche, in ultima istanza, essere interessato a una seria proposta di centro-sinistra, posta la deriva a destra cui la pressione di Salvini rischia di condurre la Meloni e il suo partito, ancora sostanzialmente composto da personale di provenienza missina. Un elettorato che, però, si trova innanzi da un lato i personalismi autocentrati di Renzi e Calenda, capaci di distruggere l’idea del Terzo Polo ma anche, più gravemente, l’idea stessa che si possa costituire una forza politica di Centro.

E dall’altro incontra un Pd che, ormai da tempo abbandonata anche solo la suggestione della “vocazione maggioritaria” (che era la pietra angolare della sua costituzione), ha nell’ultimo anno intrapreso una strada opposta, identitaria, di sinistra più che di centrosinistra, centrata su valori individualistici lontani dalle reali necessità della gente comune. Una strada che forse ora sta cominciando ad apparire angusta anche alla sua principale promotrice: ed è proprio sull’idea europeista, oltre che sui temi dell’equo compenso lavorativo, che Schlein forse cercherà di correggere almeno in parte la rotta. Il problema suo è che, per farlo, deve ricorrere a personalità non appartenenti alla sinistra tradizionale e neppure di giovane età – da Prodi a Gentiloni, da Bindi a Letta – che con tutta evidenza cozzano con quell’idea di una “nuova classe dirigente” che supera le scelte a suo tempo adottate dal “precedente Pd” elargitaci in favore di telecamera quasi ogni sera dai protagonisti del nuovo corso, quel ristretto nucleo dirigente asserragliato intorno alla segretaria incapace di rendersi interessante a chi non si sente in sintonia col loro pensare ma non per questo è di destra o è ostile in termini preconcetti ad una sinistra di governo.

Non solo. Il Pd rimane ancora legato alla suggestione del “campo largo”, da seminare e arare insieme ai 5 Stelle ora guidati dall’avvocato on. Conte, a suo tempo improvvidamente definito “punto di riferimento della sinistra” da dirigenti dem palesemente ubriacati dall’esperienza governativa del Conte 2. Senza rendersi conto, il Pd oggi in versione neo-radicale, che l’obiettivo di Conte e dei suoi pentastellati è esattamente quello di svuotarlo di una parte del consenso per divenire essi la guida dell’eventuale alleanza di sinistra. Ma rivelando nei passaggi topici la loro vena populista, demagogica, antieuropeista che ben si era manifestata col governo giallo-verde, il Conte 1. Ed infatti emergono le ambiguità nel rapporto con la Russia di Putin, nascoste all’ombra di un opportunistico pacifismo; o in quello con la Cina, emerse con l’autolesionistico, per l’Italia, accordo sulla nuova “Via della Seta” ora opportunamente ricusato dal governo Meloni; o nei rapporti con gli americani sostenitori di Donald Trump, nella speranza segreta e neanche troppo di un suo ritorno alla Casa Bianca; o nel rapporto conflittuale con la UE, vera cartina di tornasole emersa in occasione del voto sul MES. Una alternatività al Pd addirittura clamorosa, tanto che non vederla, ai piani alti del Nazareno, appare francamente incomprensibile.

Questo è il quadro, per sommi capi, che si presenta davanti a quel potenziale elettorato “centrista” di cui si è qui detto, sempre più sconsolato e sempre più tentato dal rifugio astensionista. Chi è disposto a rivedere le proprie posizioni e a cercare un recupero, sia pure in “zona Cesarini”?