La crisi del Meazza ed il sapore sconosciuto del dissenso. Analisi di “ArcipelagoMilano”

Dopo il plebiscito, Beppe Sala assaggia per la prima volta il gusto amaro della distanza dalla città.

Giuseppe Ucciero

Il tempo passa e la questione del Meazza diventa ogni giorno più delicata ed ingombrante. Beppe Sala ne pare ormai consapevole e le sue mosse goffe sono segno di crescente nervosismo. Si può parlare della prima vera crisi di rapporto con la città?

Il fatto è che, per la prima volta dall’inizio del suo regno, prende forma un dissenso ampio e trasversale, nato in sordina nella società ma, qui sta il nocciolo della questione, in avvicinamento verso la politica. Così Beppe un po’ sbotta e un po’ si riposiziona: passa dall’ “allora compratevelo”(lo stadio)  all’ “io sono nel mezzo” (tra società calcistiche e città). Tocca a Milan ed Inter di convincere i “loro” tifosi della bontà del “loro” progetto. Come se avendo preso la decisione in giunta, non toccasse principalmente a lui l’onere della difesa del “suo” provvedimento. 

Intanto, il dibattito pubblico, pur malamente abortito come “debat publique”, e silenziato finora nell’aula comunale, prende forma e decolla nella città: Berlusconi e Moratti, tanto lontani per stile e simpatie politiche, hanno preso posizione bipartisan contro la demolizione del “vecchio” stadio. Forse Beppe pensava, come per gli scali ferroviari, di aver a che fare solo con le resistenze di qualche illuminato urbanista, ed ha tirato diritto, dimenticando che qui si tratta di calcio, una passione così forte da chiamare tutti in campo a dire la loro. Se poi i Presidenti delle maggiori glorie calcistiche cittadine si muovono di conserva, questo pesa, eccome se pesa, nella forza simbolica e negli assetti di potere. 

Nella grande pancia della città, nei bar del centro e delle periferie, luoghi elettivi della formazione del consenso o della sua crisi, cresce la sgradevole percezione che l’operazione, presentata come grande occasione di rigenerazione urbana e di ritrovata potenza calcistica, sia in realtà principalmente utile ad arricchire le poco amate proprietà cinesi ed americane dei club e, con loro, gli attori della speculazione immobiliare (pardon transizione urbana) in servizio permanente effettivo. 

Ci si chiede, in breve, per quale motivo si debba abbattere uno stadio recentemente ristrutturato e funzionante, e se non sia preferibile semmai migliorarlo con minor spesa, piuttosto che distruggere un simbolo caro ai milanesi negli ultimi 70 anni. Ci si domanda se l’abbattimento del Meazza non sia distruzione non solo della memoria ma anche di un rilevante valore patrimoniale del Comune. Quel che è peggio, per gli amici del progetto, la bolla comincia ad attrarre e contaminare molti esponenti della vita pubblica, passata e presente, fino ad assumere una inevitabile fisionomia politica, pur non ancora partitica: attorno al Meazza, accanto a chi ha a cuore la tutela di un bene pubblico di grande valore o della qualità urbanistica cittadina, si aggiungono figure che Beppe, nel suo non sempre delicato incedere, ha messo da parte o addirittura triturato. 

I nomi, per chi sa qualcosa della vita degli ultimi 10 o 20 anni della cronaca cittadina, non hanno bisogno di presentazioni particolari. La slavina si muove e scendendo a valle si ingrossa, inglobando quanto incontra, riempiendosi di umori negativi che vanno aldilà della questione specifica, accrescendo forza e virulenza. Ed il segno politico è, aldilà delle intenzioni dei singoli, contrario al Sindaco.

Né lo aiutano i poco eleganti commenti: risuona ancora quel “fuori dalle grotte” urlato ai dipendenti comunali ancora attardati, per lui, nel comodo smart working di casa, ed il ricordo non fa piacere. Ecco, per molti questo stile di comunicazione poco si conforma alla misura che dovrebbe ispirare un primo cittadino e segnala un’arroganza decisionista non appropriata, limite pesante nella sua azione politica. 

Non sembrano accettabili ad un pur moderato sentimento democratico la sottrazione sistematica della questione al dibattito pubblico e la tentata delegittimazione del referendum cittadino, incautamente motivata con l’inedita e sorprendente teoria dell’oggetto ammissibile solo in materia “etico-morale” (???). Una fesseria assoluta non solo sotto il profilo giuridico (*) ma anche del senso comune, per di più clamorosamente smentita dalla precedente prassi referendaria (i quesiti del 2011 per intenderci), focalizzata su problematiche ambientali e specifiche iniziative progettuali.

Il fastidio mostrato verso la discussione pubblica, nelle sedi istituzionali e non, contraddice anche le recenti simpatie per il colore verde, sensibilità politica che presuppone il coinvolgimento dei cittadini nei processi deliberativi, trattandosi della loro vita. Così anche l’iscrizione ai verdi europei corre il serio rischio di trovarsi derubricata da conversione miracolosa sulla via di Damasco a spregiudicata capriola, utile forse nel breve a ramazzare qualche voto, ma inevitabilmente incapace di esorcizzare il sentimento di distacco che il mondo ambientalista sta maturando sempre più, in Comune ma non solo. Prendono crescente distanza Monguzzi e Fedrighini, un tempo vicini.

 

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