L’alternativa è l’estensione del concetto di democrazia compiuta, per il quale in verità si batté Aldo Moro, visto che la sua traduzione nella prassi aderisce alla speranza di una società impregnata del senso profondo e autentico di “bene comune”.
Le vicende politiche delle ultime settimane testimoniano l’esistenza di un disagio democratico che in passato (Norberto Bobbio) e più recentemente (Giovanni Sartori) era stato ricondotto a una sorta di “democrazia élitaria”, diffusa non soltanto nel nostro Paese, ma a livello mondiale.
In effetti, se si guarda alle ultime cronache del Movimento 5 Stelle (ma non solo), con all’apice delle considerazioni il fatto che un popolo fatto di appena sessantamila elettori decida del futuro di un Partito o Movimento, c’è da rabbrividire e, soprattutto, si avverte una certa nostalgia degli scontri ideali tra le correnti della Democrazia Cristiana, come pure e ancor più tra quest’ultima e il Partito Comunista.
Durante tutto il corso della cosiddetta Prima Repubblica, nel secolo scorso, la democrazia era stata definita “bloccata” per l’impossibilità di una alternanza alla guida del Paese tra forze politiche diverse. La questione comunista teneva banco e trovava interlocutori della statura di Aldo Moro, per i quali era necessario mettere mano alla realizzazione di una democrazia matura (o compiuta), ponendo fine con ciò alla “conventio ad excludendum” nei confronti del PCI.
Oggi, evidentemente, il problema è diverso, ma forse più grave che nel passato, perché se è vero che ormai anche in Italia vi è quella sorta di alternanza tra schieramenti politici alternativi, al di là dell’attuale fase di emergenza guidata da Draghi, la democrazia (ossia il governo del popolo) appare malata nelle sue fondamentali premesse. La partecipazione popolare si riduce di elezione in elezione; le élites politiche sguazzano nel marasma del disinteresse quasi generale; la legge elettorale privilegia la posizione dei nominati dalle segreterie dei partiti; le posizioni estreme si rafforzano ed ormai coinvolgono anche personalità moderate e lontane dalla cultura populista e sovranista.
Ed allora, che fare? In via preliminare urge un ritorno alla politica intesa come confronto di programmi e di idee, rifuggendo dalle invettive e dalle deficienze culturali di buona parte dell’attuale classe dirigente, la quale pensa, in effetti, di fare del populismo la chiave perenne per rimanere ancorati alla poltrona parlamentare e ministeriale. Tuttavia per fare questo occorre anche il coraggio di andare controcorrente, non badando ai posti e agli incarichi di potere.
Più in generale, occorre il coraggio di rimettere in discussione i modelli di sviluppo economico recenti, che non hanno fatto altro che aggravare le posizioni dei meno abbienti a tutto vantaggio dei potentati economici.
Francamente, l’attuale classe dirigente appare troppo interessata alla difesa dell’esistente, alla propria sopravvivenza politica, alle premure legate alla mera gestione del potere. Ci si domanda, quanto potrà durare? Ecco, durerà sino a quando questa miopia politica non sarà decisamente avvertita dai cittadini e non sarà cercato pertanto un rimedio, per arrivare così non alla democrazia delle élites, ma a quella democrazia sostanziale nella quale ogni cittadino ha il potere di scegliere la propria classe dirigente al di fuori dalle imposizioni di questi pseudo partititi o movimenti.
Il futuro della democrazia non è quello della prevalenza delle élites politiche ed economiche, ma quello di un popolo che oggi, con la caduta di barriere e di confini, sente sempre di più quella sorta di fratellanza universale evocata da Papa Francesco, secondo la quale non esistono più diversità di razza, di religione, di costume, di sesso.
Tutti sono chiamati alla costruzione di una società mondiale solidale dove ognuno porti il proprio contributo o meglio i propri talenti per costruire su questa terra quello che Dossetti chiamava il “bonum humanum simpliciter”, ossia il bene umanamente autentico che abbraccia e coinvolge tutta intera la comunità.