Articolo già apparso sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Giuseppe Bonfrate
«Nella tua luce vediamo la luce» (Salmo 36, 10). Questo riferimento della Scrittura — potenza unitiva del frammento — apre il testamento del cardinale Achille Silvestrini, redatto con minuta grafia il 25 ottobre 2010, giorno del suo ottantasettesimo compleanno. Nell’essenzialità di quel versetto biblico, traspare il ministero del grande porporato, giunto dalla Romagna nel 1948, e dopo gli studi giuridici all’Apollinare e il passaggio nell’Accademia ecclesiastica, dal 1953 diplomatico della Santa Sede. Lo volle nell’immaginetta che riproduceva il quadro della Madonna delle Grazie venerato nella Collegiata di Brisighella, a ricordo dell’ordinazione presbiterale e di quella episcopale, nel segno di un radicamento fedele alle sue origini, che non gli impedì nei suoi impegni di muovere lo sguardo su orizzonti sempre più grandi, secondo la convinzione di Theodor Mommsen, che non si potrebbe stare a Roma «senza un’idea universale». La sua terra gli aveva trasmesso l’insegnamento che la parola data, occhi negli occhi, non poteva valere meno di un contratto bollato, e che bisognava sempre rispettare l’avversario: il prete, soprattutto, fedele nelle sue convinzioni, alla fine d’ogni eventuale controversia o battaglia, doveva credibilmente risultare l’uomo di tutti, nella diaconia dello Spirito che «soffia dove vuole» (Gv 3,8).
Il salmo 36 pone a tema due diversi umanesimi. Nella prima parte si descrive quello succube del peccato che seduce e impressiona tutta l’esistenza, incatenando la vita al proprio io che prende il posto di Dio. La giustizia e l’amore non troverebbero spazio nell’avanzare opposto dell’iniquità che ben si serve dell’animo corruttibile, della disposizione a barattare i valori con le convenienze, di servirsi degli altri, specie i più deboli, anziché servirli. Solo quando, invece, decidendosi a lottare per emanciparsi dalla tirannia della vanità, foriera di pensieri infami e azioni scellerate, si potrà finalmente disporre la svolta, vuote le mani, consegnandosi a quel Dio che può veramente salvare. L’altro umanesimo è nel segno della gravità e, insieme, levità dell’essere: allo sguardo reso limpido dall’abbandono di chi si affida, si aprono finalmente i cieli, come accadde al principe Andréj in Guerra e pace di Tolstoj, più volte evocato dai suoi amici Alberto Cavallari e Claudio Magris. In quel frangente, per quelle agoniche e pacificanti disposizioni, appare, allora, la luminosa misericordia, non i fuochi fatui della ormai lontana mondanità, ma la vera Luce-Cristo, venuto a illuminare-salvare il mondo (Giovanni 3, 19).
Nella trama sapienziale del tema della Luce, la salvezza prevale sulla condanna, e non poche volte sorprende che la scia luminosa possa misteriosamente avvolgere quei “retti di cuore” presenti nel mondo anche dove non ce lo saremmo aspettati. E questa fu sempre l’invincibile speranza di don Achille (come preferiva farsi chiamare). Tale convinzione sostanziava la sua fede e la sua laicità. A proposito di quest’ultima, anche Federico Fellini, tra gli altri, si sorprese di quanto quel “cardinalone” potesse essere spiritualmente autorevole e, insieme, laico, per la sua capacità di entrare direttamente in contatto (un vero e proprio talento delle relazioni), senza le maniere oblique tipicamente clericali, autentico, libero da pregiudizi, sinceramente interessato e subito empatico, sempre accogliente e discreto. Di quella laicità che bandisce l’istinto manicheo di chi si sente dalla parte giusta delle cose della terra e del cielo. Ma chi potrebbe presumerlo? Rispondendo a un politico famoso per le sue battaglie di libertà, che salutandolo esclamò: «Eccoci, il diavolo e l’acqua santa», si schernì immediatamente affermando con ironia che non sarebbe stato semplice distinguere chi dei due fosse veramente il diavolo.
Dopo la morte del cardinale Agostino Casaroli s’impegnò a convincere l’editore Giulio Einaudi ad accogliere la pubblicazione del racconto del dialogo tra la Santa Sede e regimi dell’Est. Per la scelta del titolo, dal testo emergevano due possibilità: Voglio destare l’aurora, dal Salmo 57 (56), e Il martirio della pazienza, su cui cadde la scelta. Silvestrini nell’introduzione spiega il senso teologico dell’Ostpolitik vaticana nel riconoscimento dell’azione della Grazia/Luce: si domandava, a proposito del suo antico superiore, nell’esperienza condivisa e per l’eredità che accoglieva, quale fosse lo stile conseguente le parole mormorate da Giovanni XXIII, che la Chiesa può avere molti nemici, ma non è nemica di nessuno: «nasceva da una fede saldissima coniugata con una rara finezza intellettuale. Dalla prima gli veniva il coraggio biblico di operare, anche nelle situazioni più ardue, contra spem in spem e di sopportare il peso e la solitudine; dalla seconda una capacità di analisi che gli dava il senso delle cose possibili […]. Fiducioso che anche quando gli uomini apparivano chiusi nelle corazze di posizioni pregiudiziali, c’era sempre qualche spiraglio per arrivare al cuore delle persone. Aveva fiducia che nella coscienza degli uomini esiste una luce misteriosa, che non può essere spenta neppure nella morsa della più spietata delle istituzioni». In una prima versione il periodo si concludeva con il riconoscimento della peculiarità dell’azione della Santa Sede come diplomazia della speranza, nel senso del realismo cristiano di questa virtù, per piccoli passi e cose oneste e possibili.
La fiducia realista in quella Luce lo ha sostenuto nel paziente lavoro di tessitura che è sempre la diplomazia. Più volte provocato da alcuni dei suoi ragazzi di Villa Nazareth sul senso/non senso per la Chiesa di avere una sua diplomazia, pazientemente spiegava che non si poteva comprenderla senza passare dalla storia, e dall’affinamento purificatore di certi avvenimenti. Uno tra tutti, la breccia di Porta Pia. Ricordava le parole pronunciate in Campidoglio nel 1962 dall’allora cardinale Montini che confidò di «non avere alcun rimpianto, né alcuna nostalgia, né tantomeno alcuna segreta velleità rivendicativa» per la perduta sovranità temporale dell’ex Stato pontificio, spingendosi a «ringraziare la Divina Provvidenza» per i cambiamenti avvenuti in seguito ai fatti del 1870.
Cos’era cambiato? La Chiesa poteva liberarsi dalla necessità del contendere e riscoprire la sua missione universale, senza nulla chiedere per sé e operare per il bene di tutti. Spogliata di ciò che la rendeva simile agli altri Stati, si rimodellava evangelicamente, nel segno nudo, povero, fedele, di quel misterioso personaggio del Vangelo di Marco (14, 51), la notte del Getsemani, che mentre tutti abbandonando Gesù fuggirono, «lo seguiva un ragazzo, rivestito soltanto di un lenzuolo».
Nella sua genealogia diplomatica fonte di ispirazione era l’impegno profuso dal cardinale Rampolla del Tindaro (1843-1913), in tempi non ancora maturi per riconoscerne la grandezza, nell’allargare le relazioni diplomatiche internazionali della Santa Sede. Esse vengono rifondate come strumento di tutela dell’alto indirizzo morale del papato, a garanzia della sua libertà, a tutela dell’indipendenza funzionale da qualsiasi principe temporale, per non ridurre il vescovo di Roma a cittadino di uno Stato qualsiasi.
Chi dopo di lui aveva continuato ad approfondirne il solco, vi aggiungeva la dimensione spirituale. Ci sono le note di monsignor Tardini al funerale di Pio XI, che intravede la fine di un mondo non più necessario, di una Chiesa che non può più essere trattenuta dalle esigenze di corte, con la sua dimensione popolare che doveva ritrovare parola: «Ho sempre sognato nello scegliere lo stato ecclesiastico», scriveva nel suo diario, «di gettarmi a capofitto nel sacro ministero, in mezzo al popolo. Quando mi riesce di essere a contatto con le anime sono proprio soddisfatto». Quasi tutto il suo tempo era assorbito dal lavoro d’ufficio — analisi dei problemi, penetrazione delle cause, previsioni delle conseguenze — che, però, non rinnegava la sua indole, intravedendo dietro ciascun foglio un volto, una storia, germinando quella sua esclamazione divenuta ormai proverbiale, che «anche le carte sono anime». Divenuto segretario di Stato, fu incaricato da Giovanni XXIIIdi presiedere, non senza turbamento, la Commissione antepreparatoria del concilio Vaticano IIche avrebbe indirizzato il passaggio da una Chiesa di corte a una Chiesa di popolo, da una Chiesa arroccata a una Chiesa liberata dalla paura. Preoccupato per l’integrità della tradizione e della dottrina, entrando in concilio, sarebbe capitato anche a lui, se non fosse prematuramente morto, quello che accadde ad altri: avrebbe scoperto per la sua genuina fede, che il nome di Dio non è solo una rivelazione del passato, ma è una realtà vivente, che si declina pure al futuro.
Nel Novecento si assistette al cambiamento della base teologica del rapporto Chiesa-Stato, abbandonando a proposito di libertà religiosa, l’articolazione conseguente tra verità (l’unica vera religione è quella cattolica) e libertà. Se ci fosse stato errore (altre religioni) conseguentemente non ci sarebbe stato il riconoscimento di diritti, se non per evitare mali peggiori. Di più c’era il criterio della maggioranza: se essa è costituita di cattolici, lo Stato — e questo sostanziava le attese di ogni Concordato — avrebbe, di conseguenza, fatto di tutto per tutelare e promuovere la Chiesa. Il gesuita padre Murray, negli anni ’50, aveva indicato la necessità di superare questa dottrina, esortando a valorizzare inclusivamente la questione della libertà religiosa. Le sue idee vennero non poco avversate, ma con la Pacem in terris e il concilio Vaticano II, soprattutto con Gaudium et spes e Dignitatis humanae, con il riconoscimento del diritto ad adorare Dio «secondo il dettame della retta coscienza», si affermò la sua linea. Gli Stati non sarebbero stati tenuti a tutelare una religione tra le altre, ma il diritto alla trascendenza, collegato al rispetto del diritto degli altri e del bene comune. Da sempre la Chiesa aveva sostenuto che l’atto di fede per essere autentico, deve essere schietto e libero, e mai imposto. Di conseguenza, la libertà di seguire la propria coscienza in ambito religioso doveva essere riconosciuta come diritto di tutti, e non solo dei cattolici.
Da questo momento in poi la Chiesa scoprì la sua missione di lottare per la libertà e la dignità umana in campo civile e religioso — «avvocata dell’uomo» era l’espressione coniata da Paolo VI — che si coronò con il contributo della Santa Sede sui diritti umani, con un ruolo primario svolto da Silvestrini nella Conferenza di Helsinki (1975), negli impegni di Vienna (1986-1989) dove si formula la nozione più chiara, più estesa ed efficace di libertà religiosa, e a Parigi (1990) dove vennero poste le basi per la creazione dell’Osce (1995), quale organo di garanzia per l’applicazione di tutti i principi a garanzia di una coesistenza pacifica, con l’affermazione del ruolo positivo delle religioni per la pace.
Questo sfondo alimentò la simpatia di Silvestrini per l’iniziativa avviata ad Assisi nel 1986 della Giornata mondiale di preghiera per la Pace, e sostanziò l’incoraggiamento a sottoscrivere il coraggioso documento conclusivo dell’Assemblea ecumenica di Basilea (1989), che tra l’altro affermava: «Noi non siamo nella posizione di poter parlare come se fossimo in completo possesso della verità ultima. Le chiese e i cristiani hanno fallito sotto molti aspetti e non hanno vissuto sempre all’altezza delle esigenze della chiamata di Dio. […] Per troppo tempo siamo stati ciechi riguardo alle implicazioni e alle esigenze del Vangelo relative alla giustizia, alla pace e alla salvaguardia del creato. Insieme con gli altri abbiamo bisogno di un nuovo inizio».
Quando si preparava alle missioni, non si preoccupava di cosa mettere in valigia, ma studiava e ristudiava le carte d’archivio, compulsava voracemente le biografie e le memorie dei grandi che si erano seduti ai tavoli delle trattative internazionali, che nel male e nel bene avevano segnato i destini delle nazioni. Prendeva nota con quella sua stilografica, che per chi lo conosceva sembrava pronta a correggere anche quanto ormai stampato da secoli. Lo faceva con l’attenzione, la gravità e il coraggio di chi non sottovalutava mai nulla. In questo stile si avvertiva anche l’influenza del grande erudito, per molti anni rettore del seminario di Faenza, monsignor Lanzoni: il suo magistero educativo si riassume nell’ammonimento rivolto alla Chiesa di non cedere mai alla paura della storia e della sua propria storia, ma di alimentare il coraggio di guardarsi dentro, scrutare dentro gli archivi, esaminare le fonti, i documenti, per trarre anche dalle più piccole vicende locali le ragioni di ogni sua scelta. Per i suoi studi incappò nelle censure del Sant’Uffizio, ingiustamente accusato di contiguità al modernismo, disposto sempre all’obbedienza, rifiutò di ritrattare spontaneamente quel che reputava incontestabile, anche se c’era in ballo un’eventuale promozione. La sua testimonianza restava un’indelebile lezione di fedeltà e libertà.
Riferiva queste vicende unendovi il racconto di quanto accadde a De Gasperi con Pio XIInel 1952, quando per le amministrative a Roma e in altri comuni, preoccupati della possibile vittoria delle sinistre, Gedda e monsignor Ronca sostennero l’ipotesi, convincendo il Papa, di un’alleanza della Democrazia cristiana con i monarchici e i neofascisti del Movimento sociale italiano. De Gasperi si oppose al disegno, consapevole di scontentare il Pontefice. Egli era cattolico, ma credeva nell’autonomia di giudizio. Venne punito con il rifiuto dell’udienza richiesta per sé e la sua famiglia in occasione del trentesimo anniversario di matrimonio. Scrisse all’ambasciatore italiano presso la Santa Sede: «Come cristiano accetto l’umiliazione, benché non sappia come giustificarla; come presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, la dignità e l’autorità che rappresento e di cui non mi posso spogliare, anche nei rapporti privati, m’impone di esprimere stupore». Mesi dopo, da un appunto di monsignor Pavan, scoperto dal professor Andrea Riccardi, c’è l’integrazione più intima, in cui confida che se si fosse trovato ancora con il Papa contro, si sarebbe ritirato dalla vita politica, «non potendo svolgere un’azione politica in coscienza ritenuta svantaggiosa alla patria e alla stessa Chiesa».
La Chiesa, chiosava Silvestrini, si serve con la parresìa, passaggio nel fuoco di ogni coscienza libera, secondo quella che Fonsegrive e Mazzolari chiamavano «obbedienza in piedi». E si tratta di un servizio disinteressato al proprio tornaconto: «Al Papa si deve dire, sempre e chiara, la verità» ribadiva don Achille, con quelle frasi ascoltate dal cardinale Tardini, «tanti chiedono? Io non chiedo niente, anzi chiedo di aver niente». Libertà, franchezza, gratuità, sono necessarie all’autentica fedeltà.
Questi temi frequentemente accaloravano le conversazioni con il professor Pietro Scoppola, con il quale convergeva, dopo il Convegno ecclesiale di Loreto del 1985, nel ritenere necessario spronare i credenti ad agire contro la barbarie della vanità, dei trasformismi e contrattualismi senza anima, per il recupero della «moralità intrinseca della politica». E bisognava rendersi disponibili «a rischiare quotidianamente il consenso, nella scelta coerente dei mezzi adeguati ai fini dichiarati». Il cristianesimo avrebbe dovuto abbandonare la tentazione identitaria e maturare una “spiritualità del conflitto”, di fronte all’evidente pluriformità delle convinzioni morali e degli assetti culturali. La sintesi doveva essere ricercata nella convinzione che il bene individuale non avrebbe avuto fondamento senza il desiderio d’essere bene comune. A questo proposito era persuaso dell’utilità di riportare la Teologia nelle facoltà laiche per favorire una ricerca affinata dal confronto delle differenze.
Quando nel 1994 si palesarono gli effetti della crisi morale dei partiti, e della Democrazia Cristiana in particolare, nella sua convinzione questi dovevano essere interpretati come effetto, soprattutto, della perdita di visione e delle sue corrispondenze interiori e testimoniali, come già aveva manifestato il Convegno sui mali di Roma vent’anni prima, chiedendo ai credenti di non rassegnarsi al male nel mondo e di interrogarsi, invece, sulla vocazione a trasformarlo. In questo frangente germinò quella frase rivolta ai cronisti che cercavano di rilevare il suo rimpianto per la fine del partito che aveva sempre spalleggiato le esigenze della Chiesa: «l’unità dei cattolici in politica non è un dogma». C’erano la fiducia nell’autonomia responsabile del laicato-lievito che sarebbe maturata più efficacemente nella pluralità, e il desiderio di liberare la Chiesa da un condizionamento che mentre sembrava agevolare l’assolvimento di richieste, di fatto poteva limitarne la libertà di annuncio, trattenendola nell’ostaggio di convenienze identitarie, e non solo. E qui citava il biblico «piatto di lenticchie» che non mancò di provocare l’olfatto, anche durante le trattative che portarono alla revisione del Concordato del 1984.
L’inizio del suo servizio diplomatico lo aveva visto occuparsi di varie questioni che riguardavano il Vietnam, la Cina e il Sud-est asiatico, e gli aveva svelato un’esperienza di fede provata finanche al martirio. Ma è l’incontro con Tardini a fissare la svolta che indirizzò le future esperienze, trasformando anche la percezione del proprio ministero. Fu suo collaboratore in ufficio, ma la cosa più determinante fu la richiesta di occuparsi dei suoi “orfanelli” a Villa Nazareth, fondata nel 1946, che è anche l’anno in cui l’Assemblea costituente comincia a riunirsi per elaborare la Costituzione della Repubblica italiana.
L’Italia era appena uscita dalla seconda Guerra mondiale, il paese era distrutto in molte sue parti, piegato dalle lacerazioni interiori, e viveva con la speranza di una rinascita e la paura di non farcela. A poca cosa erano ridotti i diritti e le tutele sociali. A monsignor Domenico Tardini, allora segretario della Congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari, bastava raggiungere il Gianicolo per vedere gli effetti della guerra. Vi era un brefotrofio dove i bambini si presentavano affamati e infreddoliti, icone di quello che chiamava “povero popolo”. Anche lui si decide a fare qualcosa, e il 12 aprile 1946 apre il cancello di via della Pineta Sacchetti numero 29 ai primi bambini provenienti da varie regioni d’Italia. Sono poveri, ma tra i poveri sceglie gli «intelligenti». Ad essi offre istruzione e formazione extracurriculare quasi a inseguire un’utopia rinascimentale volendoli educare alla cura dell’umano, alla sensibilità estetica, al plurilinguismo. Per quanto ambigua sia l’espressione, la sua ambizione è quella di formare dei leader. Ma, è lui stesso a specificarlo, leader significa «che vengono educati a far del bene agli altri».
La missione di Villa Nazareth, però, non si limita all’offerta di opportunità, ma è anche una visione che nutre l’inclinazione a pensare, disciplinati e ascetici per evitare le insidie della vanità intellettuale, con la disposizione a farsi carico degli altri. Il nome «Nazareth» rinvia al tempo trascorso in modo nascosto da Gesù; il luogo in cui avviene la sua crescita e la sua formazione in attesa della sua missione pubblica. Quel luogo, ora, indica anche il significato di un collegio universitario per studentesse e studenti, che mette al centro la parabola dei talenti (Mt 25, 14-30), il cui frutto non avrebbe significato cristiano se ridotto all’affermazione anche eccellente di sé stessi senza, o peggio, contro gli altri. Il talento fruttifica solo quando si declina in servizio-diaconia, e richiede persone che non si spaventino di faticare per coltivare un pensiero sulle cose della vita, che usino l’immaginazione come strumento di ricerca, e che siano amiche dell’umano, dialoganti, educate alla libertà e alla responsabilità. Nelle sue note Tardini, pensando al senso di questa istituzione, scriveva: «Abbiamo scelto i bambini più poveri e tra loro i più intelligenti, per una educazione completa e ben fatta […]. Il popolo ha bisogno di apostoli, cioè di persone intelligenti, colte, virtuose, disinteressate, ricche di iniziative e di spirito di sacrificio, che sentano il desiderio di fare del bene agli altri». La funzione di questo desiderio è quella di essere la sentinella che valuta la qualità del risultato in ogni passaggio di crescita. Essere a servizio, sempre, disposti ad arrischiarsi avendo nel cuore e nella testa la convinzione che non si possa perseguire il proprio bene senza preoccuparsi di quello degli altri, soprattutto i più piccoli. La comunità che accoglie una generazione dopo l’altra, educa all’ontologia della pluralità di ogni scelta individuale, non avendo timore dei conflitti, sempre nel rispetto della persona, dei suoi tempi e della sua libertà. E chi, a sua volta, sceglierà d’impegnarsi a formare, non potrà farlo senza quelle necessarie disposizioni che sono l’umiltà che dispone allo stupore, e la speranza che trattiene l’istinto di liquidare gli inciampi, i rallentamenti, gli errori come definitivo fallimento.
Il giovane Silvestrini appare nelle fotografie dei primi anni con quella sua faccia bella, intelligente, curiosa, e l’abito talare non pare una corazza in cui ripararsi. I bambini sono divenuti ragazzi, poi uomini adulti, e lui era orgoglioso di averne favorito la crescita, maturando con loro la consapevolezza che il sacerdozio è paternità, sostegno nelle prove, compagnia rispettosa, autenticamente partecipe nel pianto e nella gioia di ogni stagione. Per ognuno c’era sempre ascolto, un aiuto, un consiglio, una preghiera, e talvolta il silenzio che aveva il sapore dell’attesa fiduciosa. Questa era la sua vera casa, che proteggeva, e dove invitava tutte le persone che riteneva interessanti per le sue studentesse e per i suoi studenti. E spesso quei passaggi veicolavano future e fedeli amicizie. La Luce ha continuato a illuminare i suoi passi, anche quelli di stagioni difficili, quando ha dovuto accettare la marginalità, subire l’emarginazione, affrontare ingiusti giudizi e la solitudine delle decisioni difficili. Quando il corpo invecchiato ne ha rallentato il passo e spezzato la voce, gli incontri e i dialoghi si sono trasformati in essenza, trasfigurando in sguardi e sorrisi, la cui intensità ognuno, ora, potrà distillare: «nella tua luce vediamo la luce».