La Flat Tax è il ritorno allo Statuto Albertino del 1848

Il Governo ha avviato la sua riforma fiscale. La premier Meloni ha parlato di riforma “epocale”. Sì, ma in negativo. Invece fu davvero “epocale” il discorso di Scoca (Dc) alla Costituente.

Giuseppe Aloise

Dopo giorni di dibattiti, di approfondimenti e di incontri con le parti sociali, il Consiglio dei Ministri ha approvato il Disegna di Legge Delega al Governo per la riforma fiscale. Il comunicato ufficiale di Palazzo Chigi chiarisce testualmente che il disegno di legge individua, tra i principali obiettivi,limpulso alla crescita economica e alla natalità mediante la riduzione del carico fiscale. Al raggiungimento di tali obiettivi si perverrà con l’adozione di  particolari misure  che possono essere così sintetizzate:

– progressiva riduzione del numero degli scaglioni e introduzione della “flat tax”. Per il 2024 si prevede la riduzione da 4 a 3 scaglioni;

– copertura delle minori entrate con le cosiddette “tax expenditures”, ovvero con il  disboscamento di  esenzioni, riduzioni di aliquote, detrazioni e deduzioni che  caratterizzano il nostro sistema fiscale e che valgono oltre 100 miliardi;

– attuazione graduale della “equità orizzontale”.

Si è infine chiarito che dall’attuazione della delega non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica ed un incremento della pressione fiscale.

La misura più qualificante della riforma è senz’altro  l’introduzione della cosiddetta tassa piatta ovvero di un’imposta proporzionale unica per l’Irpef. Non v’è dubbio che la “flat tax”  mette in seria discussione il rispetto del principio costituzionale della progressività, anche se nella delega si afferma che l’eliminazione delle aliquote e degli scaglioni deve avvenire nel rispetto di questo fondamentale principio costituzionale. Affermazione poco credibile anche sulla base di quanto avvenuto a seguito dell’introduzione della flat tax per gli autonomi e professionisti.

Forse non è inopportuno – stante l’attualità della riforma fiscale, del suo profondo significato politico e della sua divisività – richiamare alla memoria il contributo offerto dai cattolici, che militavano nella Dc, per l’introduzione del principio della progressività e per la formulazione dell’art. 53 della Costituzione. Il dibattito che si registrò nella Costituente sui temi fiscali è di particolare interesse  perché, in questi giorni, si discute attorno alla possibilità che i cattolici democratici possano trovare spazio all’interno del nuovo Pd. Bonaccini ha tentato di dissipare in proposito ogni dubbio sottolineando un auspicio: “Facciamo sentire i cattolici a casa loro”, quasi che i cattolici siano degli ospiti – hospes stranieri –  che hanno diritto ad essere accolti ed ospitati!

Sul terreno della redistribuzione del reddito e della ricchezza furono proprio i cattolici della Dc ad essere i portatori di una profonda “radicalità”. “Radicalità” espressa da un partito popolare di massa sul terreno dei diritti sociali. La leva fiscale è infatti lo strumento principe per realizzare politiche solidaristiche e per eliminare le diseguaglianze.

Da poco è in edicola un volume dal titolo “La Guerra delle Tasse” di Vincenzo Visco e Giovanna Faggionato. L’ex Ministro delle Finanze ci ricorda che la Costituzione affronta la questione tributaria all’art. 53 che al primo comma richiama il concetto di capacità contributiva mentre al 2° comma sancisce che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Visco ci ricorda che la formulazione definitiva dell’articolo si deve all’impegno, quasi solitario, del deputato Dc Francesco Scoca cui poi si aggiunsero altri due Dc (Luigi Meda, esponente del mondo cattolico e della resistenza milanese, e Edgardo Castelli) e due deputati Pci.

Nella seduta dell’Assemblea del 23 maggio 1947, illustrando i suoi emendamenti Scoca tenne un discorso di grande attualità sul concetto di progressività e di “equità verticale”. Egli lamentò che il sistema tributario allora vigente era informato alla regola della proporzionalità dell’imposta, riveniente dall’art. 25 dello Statuto Albertino.Ed aggiunse con  lucida ed efficace  semplicità: “Non si può negare che una Costituzione, come la nostra, che si ispira a principi di democrazia e di solidarietà sociale, debba dare la preferenza al principio della progressività anzichè a quello della proporzionalità. le dispute dei dotti su questo tema mi hanno lasciato sempre perplesso: non così le osservazioni di ordine pratico. Ho sempre pensato che chi ha diecimila lire di reddito e ne paga mille allo stato con l’aliquota del 10%, si troverà con 9 mila lire da impiegare per i suoi bisogni privati; mentre chi ha centomila lire, dopo avere pagato un’imposta del 10% si troverà con una disponibilità di 90 mila lire. È ovvio che per pagare l’imposta il primo contribuente sopporta un sacrificio di gran lunga maggiore del secondo, e sarebbe equo alleggerire l’aggravio del primo e rendere un pò meno leggero il secondo. La progressività deve essere effettivamente operante. Si può discutere la misura della progressività. No sul principio.

Nel suo intervento, Scoca aveva ripreso alcune osservazioni in tema di fiscalità fatte nel 1862 da Quintino Sella, Ministro del Governo Rattazzi, in Parlamento: “Una tassa del 10 su tutti sembrerà affatto equa, perché domanda una lira a chi ne ha 10 e domanda 10 centesimi a chi possiede una lira; ma se lunica lira del povero è destinata a salvarlo dalla fame e la decima lira del ricco serve perché egli entri in teatro, ciò che in entrambi chiamasi lira non ha una eguale importanza e il contribuire con una medesima parte di aliquota corrisponde a sacrifizi radicalmente diversi.

In continuità con Quintino Sella, Marco Minghetti, esponente della Destra Storica che realizzò per primo il pareggio di bilancio, in un saggio del 1869 ammonì che, “ferma rimanendo la contingente preferenza per la proporzionalità, codesta proporzione dell’imposta se sì guarda nei suoi effetti, torna più grave a chi meno ha di quello che sia al più abbiente; onde per giustificare l’apparente eguaglianza uopo è che sia temperata dalla progressione.

Per contrastare il disegno della Premier Meloni sulla introduzione della flat tax non c’è bisogno di scomodare illustri professori di Scienze delle Finanze o di Diritto Tributario, basta solo richiamare Quintino Sella, Marco Minghetti e l’apporto di un democristiano come Scoca per l’introduzione in Costituzione del principio della Progressività.

Con l’attuale delega, è inutile negarlo, si ritorna all’art. 25 dello Statuto Albertino: Essi ( i regnicoli ) contribuiscono, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato.Quindi tutto su base proporzionale a prescindere dall’entità del reddito complessivo realizzato.

La Flat-tax è appunto una tassa piatta: una percentuale fissa applicata sul reddito delle persone o sulle “cose”.Introdurre una tassa fissa (del 15% ), come si è già fatto per gli autonomi, così da colpire i redditi delle persone fisiche abbandonando l’attuale sistema a scaglioni, provocherebbefra l’altro una perdita di gettito di molte decine di migliaia di miliardi di euro. Non si riesce a capire dove e come compensare queste minori entrate. Le “tax expenditures” produrrebbero maggiori entrate, ma insignificanti, sicchè il taglio della spesa sanitaria, della scuola e del welfare rimarrebbe una strada obbligata.

La programmata abolizione dell’Irap, nella prospettiva della riduzione della pressione fiscale, mi sembra un disegno sull’acqua se contestualmente non si individuano le fonti alternative per finanziare la sanità pubblica a meno che non si voglia smantellarla. Quanto al disboscamento – che allo stato sembra velleitario – delle tante esenzioni e agevolazioni esistenti nel nostro sistema tributario, prospettato dal Programma Meloni per compensare le minori entrate, non può essere dimenticato lo sforzo compiuto dallo stesso Scoca durante i lavori della Costituente. Il parlamentare avellinese sostenne infattil’intangibilità del principio della generalità dell’imposta e,per eliminare la possibilità di legiferare creando diversità di trattamento, esenzioni e privilegi di vario genere, propose una norma con la quale si stabiliva che “le disposizioni che costituiscono eccezioni al principio delluguaglianza tributaria possono essere stabilite solo per lattuazione di scopi di interesse pubblico.

Scoca accanto alla progressività difendeva anche il principio della “uguaglianza tributaria”. Questo emendamento aggiuntivo, purtroppo, venne poi accantonato. Se fosse passato non avremmo registrato tutta una serie di agevolazioni ed esenzioni che si sono succedute nel tempo creando l’aspettativa di bonus a ripetizione!

Ma c’è di più. In tema di fiscalità, come ci ricorda Vincenzo Visco, il programma elettorale della Dc per le elezioni del 1946 prevedeva “un’imposta progressiva sul reddito complessivo, un’imposta progressiva sul patrimonio, la tassazione sul reddito effettivo etc..”. La cosa per Visco  appare sorprendente perché negli anni 50 Bruno Visentini, già sottosegretario alle Finanze nel primo Governo De Gasperi, sostenne che la struttura economica dell’Italia era troppo arretrata per “potersi permettere” un sistema tributario moderno. 

Riletta alla luce del Programma fiscale del Governo Meloni, la proposta della  Dc di una imposta progressiva sul reddito complessivo appare “eversiva”. Se queste sono le radici, i cattolici democratici che aderiscono al Pd non devono sentirsi ospiti. Devono, forse, valutare criticamente il ruolo svolto da quanti hanno rappresentato questo filone culturale negli ultimi anni negli organismi del Partito e chiedersi se non abbiano contribuito, attraverso la loro metamoforfosi rispetto ai valori ispiratori, a realizzare la profonda rottura con l’elettorato che è sotto gli occhi di tutti.