La geopolitica di Fabbri spiega quanto poco incidano i capi

L’autore riesce a parlare a parlare di noi e degli “altri”, e nel parlare degli altri a indicarci le nostre miopie, i nostri limiti interpretativi, con l'incapacità di abbandonare la nostra prospettiva.

Penso che una dei migliori complimenti che si possa rivolgere ad un libro è di rappresentare una lettura provocatoria, disorientante, che non conferma le nostre certezze ma che le mette in crisi o quantomeno ci induce a meditarle nuovamente.

Tutto ciò penso lo si possa dire di Geopolitica umana (Gribaudo), ultimo lavoro del direttore di “Domino” Dario Fabbri. In prima istanza si potrebbe commettere l’errore di credere di avere a che fare con un testo per addetti ai lavori e appassionati, forse ostico per chi non già animato da un interesse per questi temi. In realtà Fabbri attraverso il suo personale approccio alla materia riesce a parlare a tutti noi, a parlare di noi, degli “altri” e nel parlare degli altri a indicarci le nostre miopie, i nostri limiti interpretativi, l’incapacità che spesso abbiamo di abbandonare la nostra prospettiva.

Riassumere l’intero contenuto del libro sarebbe impossibile ed eccedente rispetto alle capacità di chi scrive. Può tuttavia essere utile provare a porre l’attenzione su alcuni punti che sembrano fondamentali. Il primo risulta particolarmente attuale per affrontare l’anno appena cominciato. I media hanno posto l’attenzione sul fatto che il 2024 sarà ricco di scadenze elettorali, dal rinnovo del parlamento europeo alle presidenziali degli Stati Uniti. Sono dunque in molti che si affannano ad individuare i vari scenari possibili e a cercare di capire come la vittoria di questo o quello schieramento potrà influenzare in un senso o nell’altro l’evolversi delle vicende internazionali.

Fabbri ci spiega invece che si tratta di un esercizio in definitiva abbastanza sterile, incapace di aiutarci realmente nella previsione delle traiettorie che la storia seguirà. Il presupposto di questo convincimento è la natura fortemente antileaderistica della geopolitica umana, per la quale i “capi” non sono determinanti di alcunché. Essi si muovono su un percorso che il passato delle comunità ha già tracciato, inseguono un futuro che in qualche modo è già sempre dato alle collettività di cui sono espressione. Scrive Fabbri: “I capi si rivelano capaci quando intercettano le sotterranee pulsioni di una comunità, diventandone alfieri, quando comprendono le tendenze della congiuntura internazionale impegnandosi a sfruttarle o a schivarle. Se pensano di decidere la propria epoca finiscono umiliati dalla storia, se credono di imporsi sugli eventi si scoprono travolti”.

A sostegno della sua tesi Fabbri recupera un caso del passato, e cioè il diverso esito della politica navalista inglese e russa. Se la monarchia d’oltremanica riuscì a diventare padrona incontrastata del mare, a poco valsero le riforme e gli sforzi immani di Pietro il Grande di trasformare la Russia in una potenza marittima. I diversi esiti furono “determinati dall’ opposto sentimento dei due popoli”. Una posizione che ricorda quella espressa da Kissinger in Ordine mondiale: “La tradizione conta, perché non è dato alle società di procedere loro nella storia come se non avessero un passato e come se qualunque linea d’azione fosse loro accessibile. Esse possono deviare dalla precendente traiettoria soltanto entro un margine limitato. I grandi statisti operano sul limite esterno di tale margine. Se non gli si avvicinano a sufficienza, la società ristagna. Se lo superano, perdono la capacità di plasmare laposterità”.

La seconda questione riguarda la distinzione per Fabbri fondamentale fra popoli incentrati sull’economia e quello che si nutrono di potenza. È un argomento che Fabbri stesso riconosce essere particolarmente difficile da comprendere per noi lettori italiani che a pieno titolo rientriamo nella prima categoria. Le nazioni dedite alla potenza “si privano di ingenti risorse finanziarie per utilizzarle in ambito strategico, conducono vite dolorose per aggredire i nemici, impongono alle aziende di anteporre l’interesse nazionale al profitto, assimilano gli stranieri per utilizzarli in guerra. Si concentrano sul controllo del territorio, molto meno sui diritti civili, sul futuro dell’ambiente, sugli effetti del riscaldamento globale”. Per dirlo con parole più immediate, “campano di gloria” e non di indici economici.

L’esempio più calzante sono gli Stati Uniti che, argomenta Fabbri, seguendo criteri e i parametri solo economici “rasenterebbero lo stato fallito”. O si pensi alla Russia che a scapito di un’economia non delle più brillanti pretende ancora di sedere fra le grandi potenze e riveste un ruolo centrale nelle vicende globali. La differenza fra un paese economicista e uno improntato alla potenza è determinata da tanti fattori (non ultima la demografia) per i quali si rimanda alla lettura del libro. Ci limitiamo a constare che si tratta di una tesi molto interessante se letta in relazione ai discorsi frequenti nel dibattito pubblico che vorrebbero l’economia meccanica indiscussa del mondo contemporaneo.

Attraverso queste considerazioni arriviamo diretti al terzo ed ultimo tema di questa breve carrellata che lascia meglio emergere le miopie di cui parlavo all’inizio: la convinzione di quanti abitano alle nostre latitudini che tutto il mondo segua il nostro cammino, che gli altri “vogliano diventare come noi, post-storici ed economicisti, afferenti a modelli occidentali”. E quanto emerge dal modo in cui valutiamo e raccontiamo le recenti rivolte in Iran, convinti che quei giovani si stiano impegnando per portare la Persia sui giusti binari della storia cioè i nostri. Fabbri nega questa interpretazione con forza poiché incapace di spiegare per quale motivo quegli stessi manifestanti cerchino di recarsi sulla tomba di Ciro il Grande proclamandosene eredi, erigendo cioè a loro punto di riferimento non un liberal di new York ma un imperatore vissuto svariati secoli prima della nascita di Cristo. Mi sembra che Fabbri ci proponga cioè una negazione della celebre tesi di Fukuyama che nel suo La fine della storia e l’ultimo uomo sostiene che la liberaldemocrazia rappresentando il sistema meglio attrezzato a rispondere al desiderio di riconoscimento degli uomini possa in qualche modo costituire la conclusione della storia. Questa tesi porta il politologo americano a sostenere che “la forza del revival islamico si può capire solo se si comprende quanto profondamente la società islamica sia stata ferita dai suoi insuccessi: quello di non essere riuscita a mantenere la propria coesione, e quella di non essere riuscita ad assimilare le tecniche e i valori dell’Occidente”.

E tuttavia un sostegno a Fabbri potrebbe arrivare proprio da un iraniano, e cioè l’ex presidente Mohammad Khatami.Un riformista e sostenitore della necessità del dialogo con l’Occidente. Convinzioni che non gli hanno tuttavia impedito di pronunciare queste parole nel corso di un discorso tenuto presso l’università del Libano: “Secondo alcuni, se non accettano lo sviluppo, con tutti i suoi strumenti e le sue conquiste, i popoli sono condannati all’aretratezza e alla miseria, e quindi all’annientamento; e, poiché lo sviluppo è il frutto della modernità, per acquistare una migliore qualità di vita non esiste altra strada se non il diventare moderni e diventarlo secondo i canoni della nuova modernità. Una simile valutazione politica potrebbe risultare corretta se considerassimo la civiltà occidentale come il luogo di nascita dello sviluppo e come l’ultima civiltà umana, e ne concludessimo che non resti altri a ognuno che arrendersi di fronte a quest’ultima tappa del cammino della vita collettiva verso la perfezione; ma quanti ritengono che la civiltà occidentale, nonostante la sua attualità, non sia l’ultima fra le civiltà dell’uomo, e che, come ogni altro fatto umano, sia relativa, limitata e suscettibile di essere cancellata, non si lasciano convincere dall’argomentazione sopra esposta. È chiaro, ovviamente, che rifiutare la proposta occidentale non significa arrendersi ai tradizionalisti e ai regressivi, né equivale a rifiutare in blocco tutti gli elementi e le regole dello sviluppo; vuol dire invece rifiutare in genere l’opinione di chi sostiene che ci si debba semplicemente arrendere di fronte alle ondate dello sviluppo inteso in senso occidentale”.

Tesi forti, quelle esposte da Dario Fabbri in Geopolitica umana, che probabilmente non troverebbero l’approvazione di tutti, ma che hanno certamente il merito di scuotere il lettore, di incuriosirlo e di indurlo nel sospetto che, per concludere con una citazione presa in prestito da Il Divo di Sorrentino, la situazione è un po’ più complessa.

 

 

 

  1. Fabbri, Geopolitica umana. Capire il mondo dalle civiltà antiche alle potenze odierne, Gribaudo, 2023.